Saverio Strati:

 lo strano caso di uno scrittore dimenticato

 

 

di Mario Talli

 

     Uno dei pochi vantaggi di chi ha un certo numero di anni sulle spalle (c'è chi, forse più ottimista,   non tenendo conto che gli anni pesano, preferisce dire “dietro” le spalle) è che durante la sua vita si è imbattuto, più o meno casualmente, in una moltitudine di persone. Delle quali, il più delle volte, perde ogni traccia e magari anche la memoria e che poi d'improvviso si ripresentano per un evento qualsiasi: un incontro casuale, una premiazione, un'elezione a qualche incarico, un incidente stradale o infine il necrologio che ne annuncia il decesso. (A sinistra: Saverio Strati)

      E' quanto è capitato al sottoscritto quando ha appreso dai giornali della morte, all'età di 90 anni, dello scrittore calabrese Saverio Strati, autore di molti racconti e di alcuni romanzi che gli procurarono una meritata fama e l'attribuzione, da parte della critica, della qualifica di scrittore neorealista con addentellati nella tradizione verista meridionale. Uno dei suoi romanzi, “Il Selvaggio di Santa Venere”, verso la fine degli anni '70 fu addirittura premiato con il Campiello.

     Per la precisione di Strati avevo effettivamente perso le tracce ma non il ricordo. Lo avevo incontrato la prima volta a Siena nel 1954, giusto sessanta anni fa. La seconda ed ultima volta lo incontrai circa tre decenni dopo, nei primi anni Ottanta e fu a Scandicci, alle porte di Firenze, dove dimorava dall'anno 1953. L'occasione fu un'intervista che  gli feci per il giornale Paese Sera. Di quest'ultimo incontro ho in mente soprattutto due cose: che nella persona era pressoché identico a come lo avevo visto la prima volta, come se il tempo per lui non fosse passato; che non ricordasse proprio nulla del nostro primo movimentato approccio. Ora, non stava scritto  da nessuna parte che dovesse serbarne per forza memoria, anche se era stato, come ho detto,  un incontro piuttosto agitato. Ebbi in ogni modo la percezione che per qualche motivo non volesse ricordare.

      Ma facciamo due o tre passi indietro. Per chi non lo sapesse il nostro personaggio nacque in un paese della Locride, in provincia di Reggio Calabria, da una famiglia di contadini nell'anno di grazia 1924. Contadino fu egli stesso all'indomani della licenza elementare, per poi diventare muratore. Ma aveva anche una passione che continuò a coltivare, la passione per la lettura.  Aveva appena raggiunto il traguardo della  maggiore età, quando un parente emigrato negli Stati Uniti gli finanziò la ripresa degli studi, prima come privatista in un liceo di Catanzaro, poi all'Università di Messina. Qui la buona sorte gli fu di nuovo amica, pur se quella amicizia se l'era meritata. Insegnante di Lettere in quell'ateneo era il critico letterario Giacomo Debenedetti, che apprezzò molto un racconto che Strati aveva scritto e sottoposto al suo giudizio. L'imprimatur del grande critico funzionò ovviamente da incentivo e qualche tempo dopo – tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50 -  Mondadori pubblicò il primo libro del giovane calabrese: una raccolta di racconti tutti quanti ambientati nella sua terra, riuniti sotto il titolo “La Marchesina”.

        Da quel momento al primo incontro che ebbi con lo scrittore già conosciuto ma ancora in formazione, debbo forzatamente procedere secondo deduzione. Il dato certo è che nell'anno 1953 Saverio Strati è a Firenze. La scelta del capoluogo toscano non deve essere stata casuale. Ritengo assai verosimile che Giacomo Debenedetti, tra i collaboratori della prestigiosa Terza Pagina  del giornale Il Nuovo Corriere diretto dallo scrittore Romano Bilenchi, abbia parlato a quest'ultimo – che aveva notoriamente una generosa propensione ad aiutare i giovani autori – dello scrittore appena esordiente. Il fatto è che un giorno dell'anno 1954 alla redazione senese del giornale fiorentino dove avevo esordito come cronista, vengo raggiunto da una telefonata di Bilenchi il quale mi informa che l'indomani avrei ricevuto la visita di un giovane scrittore calabrese di nome Saverio Strati e mi pregava di accompagnarlo e presentarlo ad una insegnante di Lettere che conoscevo bene perché, oltre ad occuparsi di critica letteraria ed avere rapporti con alcune case editrici, era tra i protagonisti della vita politica cittadina.

     Come annunciato, il giorno successivo un uomo di un'età indefinibile si presentò in redazione qualificandosi come Saverio Strati. Appresi dopo che aveva circa trent'anni, ma ne dimostrava senz'altro di più. Inoltre era esile e di bassa statura ed aveva un aspetto umile e corrucciato, come di persona sospettosa. Non si sarebbe proprio detto che fosse uno scrittore, ammesso e non concesso che gli scrittori debbano corrispondere ad un qualunque identikit. Era piuttosto l'esemplare di  un contadino meridionale, come in effetti era stato fino a pochi anni prima. Ma anche questo particolare lo appresi in un secondo tempo.

       Insieme ci incamminammo verso l'abitazione della professoressa, quasi senza scambiare una parola. Sotto il braccio destro Strati aveva una cartella colma di fogli dattiloscritti. Mentre camminavamo con passo spedito nella via centrale di Siena, all'altezza del palazzo medievale dove aveva abitato la sfortunata Pia de' Tolomei, la cartella improvvisamente si aprì e un buon numero di dattiloscritti si sparpagliò sul lastricato. Entrambi ci demmo da fare per recuperare i fogli, aiutati in questo anche da alcuni passanti. Compiuta l'operazione, ci dovemmo sedere in un bar per risistemare il tutto secondo l'ordine numerico delle pagine. Potei così notare che erano esattamente  quattrocentosettantacinque, che le righe erano piuttosto distanti da entrambi i bordi laterali e che non erano più di venti in un foglio.

        Ripreso il cammino e giunti a destinazione, feci le presentazioni e ci salutammo.

      Ho raccontato questo episodio abbastanza insignificante, usandolo come pretesto per  poter parlare dello scrittore da poco scomparso. Non essendo io né una sua particolare conoscenza e tantomeno un critico letterario, non avrei altro titolo per farlo se non come lettore. Ma anche da questo punto di vista ho poche frecce al mio arco, perché devo onestamente confessare che in tutti questi anni dei libri di Saverio Strati ne ho letti solo un paio e forse anche un po' distrattamente. In realtà, la vera ragione per cui ho deciso di richiamare l'attenzione su di lui, anche ora che non c'è più, è perché ho saputo che egli ha molto sofferto per una sorta di morte prematura come autore. Infatti, se come abbiamo visto  in gioventù la sorte gli è stata probabilmente benigna, successivamente gli è stata se non proprio avversa, piuttosto nemica. Stiamo parlando di un inimicizia insidiosa e anche un po' misteriosa, la più difficile da sopportare per qualsiasi autore: la dimenticanza.

      Ad un certo punto, dopo che aveva scritto e pubblicato con una frequenza assai fitta  un buon numero di romanzi e racconti che avevano avuto l'apprezzamento del pubblico e della critica e si erano aggiudicati svariati premi, dopo aver sperimentato anche nuovi linguaggi espressivi e intrapreso   nuovi percorsi oltre la nicchia nobile ma a lungo andare ripetitiva del realismo, ad un certo punto  il mondo delle lettere, editori e critici, e di conseguenza il pubblico per ragioni – lo ripeto: misteriose – hanno smesso di occuparsi di lui.

       In parte sarà dipeso anche da Strati medesimo, dal suo carattere umbràtile e schivo. In parte, forse, anche dal fatto che per quanto riguarda la società letteraria la Firenze degli ultimi decenni non  è certo paragonabile a quella che fu nella prima metà del secolo scorso. Ma  il mistero rimane.

       Come abbiamo già detto, Strati ha patito molto questo isolamento. Quando una trentina di anni fa lo intervistai nella sua abitazione di Scandicci, mi apparve ancora più cupo e diffidente, come  generalmente lo è chi ha subito un torto o un'ingiustizia, rispetto al nostro primo incontro. Sinceramente non ricordo il contenuto dell'intervista. Segno che non deve essere stato di grande interesse, più per mia colpa che sua. Ho anche cercato di rintracciarla frugando nella collezione delle edizioni nazionali e fiorentine di Paese Sera, ma senza esito, anche perché ad un certo punto ho perso la pazienza e ho smesso di cercare..    

      Per tentare di spiegare i motivi della dimenticanza subita dallo scrittore calabrese, il riferimento più utile è Stefano Lanuzza, critico e studioso, che alla biografia umana e artistica di Strati ha dedicato diversi scritti. Lanuzza si concentra soprattutto sul periodo fiorentino dello scrittore, che è non solo il più lungo nell'arco della sua vita, ma anche quello in cui praticamente si svolge tutta la sua attività di narratore. E' infatti a Scandicci che nascono, con una frequenza per alcuni anni fittissima, le sue opere, la maggior parte delle quali pubblicate da Mondadori e successivamente tradotte in numerosi paesi europei ed extraeuropei. Ecco alcuni titoli: La Marchesina, uscito nel 1956, La Teda, del '57, Tibi e Tàscia (1959), Avventure in città (1962), Il nodo (1965), Gente in viaggio (1956), fino al già citato Il selvaggio di Santa Venere”, edito sempre da Mondadori nel 1977 e ad altri romanzi e racconti usciti presso altri editori.

       Delle tematiche e della tecnica narrativa di Strati, della sua lingua, si sono occupati ovviamente molti critici. Lanuzza riporta in un suo studio una citazione da Geno Pampaloni che ci pare riassuma molto bene alcune tra le principali caratteristiche del nostro autore. “Se ci siamo diffusi sugli aspetti umani della biografia dello Strati”, scrive Pampaloni nell'introduzione alla ristampa, nel 1976, negli Oscar Mondadori, del romanzo Tibi e Tàscia, “non è certo per suggerire al lettore il ritratto di maniera di uno scrittore autodidatta. Ma crediamo che non si possa entrare nel mondo del nostro scrittore se non si tiene presente il duplice rapporto che lo lega al proprio autodidattismo: egli da un lato lo sente ed accetta come radice, condizione esistenziale del suo vivere la tradizione meridionale; e dall'altro lato gli sta di fronte come un limite da superare giorno per giorno con la ricerca, l'approfondimento, la consapevolezza”.

     Ma torniamo alla dimenticanza e all'isolamento che lo Strati scrittore patì nella seconda parte della sua vita. In un'intervista del 28 settembre 1977 proprio a Lanuzza per il settimanale “Giorni/Vie nuove”, colui che ne è vittima non ha dubbi: secondo lui le ragioni vanno cercate in considerazioni di ordine sociologico, se non addirittura classista. “So bene che il mio successo ha dato fastidio a molti letterati di potere”, dichiara. E continua “Una vera beffa che, tramite il loro premio borghese (il Premio Campiello di quello stesso anno – n.d.r.), io abbia avuto il modo di farmi conoscere al grande pubblico. I giudici non avevano immaginato che il mio libro potesse vincere il premio: altrimenti non lo avrebbero nemmeno ammesso nella cinquina finalista. Ho visto il disappunto e la contrarietà dipingersi sul volto di tanti notabili del mondo letterario. Questo come conseguenza del paternalismo imbarazzato che può accompagnare il non poter fare a meno di mettere nella rosa finale l'opera di uno scrittore proletario del Sud....Con divertimento, ho assistito al ridicolo mimetismo di gente che evitava di salutarmi per non compromettersi...”

     Ma Strati non se la prende soltanto con i protagonisti del mondo letterario borghese, ha qualcosa da dire e in un modo ancor più risentito alla critica e all'intellettualità di sinistra. “L'amarezza di un uomo come me, al quale non è mai importato di essere 'personaggio' secondo quanto pretenderebbe dallo scrittore la cultura della borghesia, è perché il mio sforzo di svolgere un discorso narrativo preciso e attuale – espressione della lotta degli oppressi, pur non rinunciando all'autonomia della ricerca letteraria – non è stato capito da quella cultura di sinistra nella quale io mi identifico, al punto di farne la ragione del mio impegno...”

       Questo il giudizio severo dello scrittore calabrese, che in effetti, come altri narratori meridionali prima di lui, aveva  posto al centro del proprio lavoro il riscatto delle popolazioni della sua terra natale. Non esiterà a rivendicarlo egli stesso, sempre nella medesima intervista. “Ho iniziato a scrivere nel 1952, a ventotto anni. Dopo più di venti anni di lavoro mi sono accorto  - è stata una scoperta anche per me – che i miei libri hanno una congrua organicità, quella stessa che si potrebbe riscontrare nell'evoluzione di una comunità umana. Ogni mio romanzo introduce il romanzo successivo....Quanto ai personaggi dei miei libri, essi sono l'espressione del mio seguire pari pari l'evoluzione storica della gente del Sud; fino al Il Selvaggio di Santa Venere con un protagonista precorrente quello che sta accadendo nel Mezzogiorno: i giovani, anche laureati e diplomati che occupando di nuovo le terre finalmente capiscono che per combattere l'arretratezza, lo sfruttamento, la mafia devono rimboccarsi le maniche e fare da sé, senza aspettare l'assistenza di nessuno. Formare cooperative per le industrie e l'agricoltura, istituire consorzi, rilanciare la zootecnia, e tante, tante altre iniziative...”

        Le parole del diretto interessato offrono oltretutto a chi legge questo articolo la possibilità di farsi un'idea della materia che costituisce l'oggetto dei suoi libri, esimendo in qualche modo chi scrive di farlo lui con la conseguenza di allungare troppo il discorso.

          E' invece opportuno e giusto riferire, riguardo sempre alla dimenticanza sofferta da Saverio Strati, l'opinione di Stefano Lanuzza che, come vedremo, alle spiegazioni sociologiche aggiunge considerazioni di natura prettamente politica, non sappiamo, ovviamente, quanto fondate.  Scrive dunque Lanuzza:”Nel 1991, in concomitanza col cambiamento di proprietà e dell'assetto gestionale dell'azienda di Segrate (ora con una maggioranza azionaria berlusconiana fagocitante anche l'Einaudi e altre case editrici minori: Sperling & Kupfer, Elemond, Le Monnier, Frassinelli, Electa, Ricciardi, ecc.), a Strati accade che la Mondadori rifiuti di pubblicare la raccolta di racconti Melina, già in bozze. Apparentemente, non c'è una spiegazione....Forse avviene uno screzio, una mite protesta dell'autore a proposito dei tempi di uscita del libro; ma è più verosimile che le ragioni del ripudio siano ideologiche: attraverso il disconoscimento di uno scrittore apprezzato nel mondo , la Mondadori di Berlusconi, padrone di Mediaset e di molto altro, sembra voglia dare un preciso segnale...”

         Sempre da Lanuzza apprendiamo che quasi nello stesso periodo la Mondadori respinse un altro romanzo di Strati e che costui nel 1956 cominciò a tenere un Diario cui si dedicò  costantemente fino a poco tempo prima di morire.                 

 

Il Galileo