Fotocronaca del 25 aprile a Milano
Come ogni anno, a Milano si è svolta la manifestazione nazionale dell’ANPI. Un
lungo corteo da Piazzale Loreto a Piazza del Duomo, discorsi rievocativi,
commozione.
Ma la parte più interessante delle celebrazioni del 25 aprile, sono le manifestazioni d’attesa che si svolgono nei giorni precedenti e la mattina stessa del 25 nei quartieri del centro e della periferia. Se percorrete le strade della città, tanto quelle centrali che dei quartieri periferici, noterete abbastanza frequentemente, sulle facciate delle case, delle lapidi o dei piccoli monumenti che ricordano i patrioti trucidati dai nazifascisti. Ce ne sono tantissime sparse per la città e in attesa della manifestazione e del corteo del 25, sono meta di pellegrinaggi. Vengono deposte corone d’alloro, si rievocano gli aventi, si commemorano i caduti, si intonano i canti della Resistenza.
Ma aldilà del significato commemorativo e rievocativo di quel giorno lontano
(molti, anche se non
partigiani,
hanno un ricordo, triste o lieto, legato a quella data) la festa ha assunto nel
tempo il significato di testimonianza dell’avversione nei confronti dei regimi
dittatoriali, della negazione della libertà individuale e collettiva, della
negazione della democrazia. Ma
quest’anno, si sono aggiunti altri significati del tutto estranei alla
ricorrenza che tenta di imporre quella corrente di opinione, per altro poco
diffusa, che per comodità
chiameremo il fronte del no. Il no a tutto ciò che sia di nuovo e di moderno, il
no a tutto ciò che può promuovere il nostro Paese. E spesso si tratta di no
espressi con notevole ritardo, quando i giochi sono ormai fatti e l’oggetto
contestato è quasi giunto a conclusione. E così, lungo il corteo di Milano si
sono viste scritte contro la TAV, contro l’Expo, contro la Pedemontana
(l’autostrada che praticamente collegherà l’aeroporto di Orio al Serio
con Malpensa, incrociandosi con numerose importanti arterie), contro la BreBeMi
(l’autostrada veloce Brescia-Bergamo-Milano che sarà, praticamente, un doppione
del congestionatissimo tratto Brescia-Milano della Milano-Venezia). In Piazza
San Babila, due energumeni si sono addirittura infilati nel corteo contestando
il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, perché contrari all’apertura di un
canale, che lambirà il loro quartiere. Che c’azzecca? direbbe Di Pietro. Che
c’azzecca? ripetiamo noi.
In questa breve sequenza fotografica, ecco il 25 aprile a Milano.
Manifestazioni in tre quartieri di Milano: alla Barona, al Giambellino e ai caselli daziari di Porta Genova
Il sindaco Pisapia, approfitta di una sosta del corteo per scherzare con una bambina
Il mio 25 aprile
Il ritorno del babbo
La Liberazione nei miei ricordi di ragazzino di 9 anni
di Giuseppe Prunai
Scorre il corteo del 25 aprile, un serpentone per le vie del centro di Milano,
una marea di bandiere, tante
quelle
rosse. E il pensiero ritorna a 69 anni fa. Ero un ragazzino di
9 anni e gli avvenimenti del tempo di guerra mi si sono stampati nella
mente a caratteri indelebili. Ancora cinque anni addietro e rivedo come in sogno
la mia famiglia riunita nel salotto buono della nostra casa di Siena attorno
alla radio, il 10 giugno del ’40, per ascoltare Mussolini che annunciava la
dichiarazione di guerra. Ricordo l’entusiasmo dei più giovani, mio padre e mio
zio (in quattro mesi arriveremo fino a
Londra, dicevano), e mio nonno che bestemmiava perché
–protestava –
anche nel ’15 dicevano la stessa cosa
invece la guerra durò quattro anni. Poi l’immagine svanisce e
vedo mio padre, in divisa di ufficiale
di marina, che parte per la base di Tolone, nella Francia meridionale occupata.
Ma dove si trovasse, lo sapevamo solo in
via confidenziale, perché la corrispondenza portava un misterioso indirizzo:
“Posta Militare 999”. E poi gli allarmi aerei (da allora, tutte le volte che
sento una sirena ho un brivido) e le corse verso il ricovero antiaereo. Ma
qualche volta, con mia madre, non l’abbiamo raggiunto in tempo, siamo rimasti
all’aperto. E allora ho sentito il rombo assordante delle formazioni di fortezze
volanti, il rumore sguaiato dei
caccia in picchiata, lo sgranare delle mitragliatrici, gli spezzoni, le bombe.
Le ho viste staccarsi dalla pancia degli apparecchi e scendere a terra (la loro
forma mi ricordava quella delle melanzane (forse è per questo che non ne mangio
quasi mai), ed ho ancora nelle orecchie il fischio roco che producevano fendendo
l’aria e poi il boato, la polvere sollevata, il rumore dei palazzi che
crollavano. Poi l’entusiasmo del 25 luglio 1943 ( il ricordo è associato a
quello della rottura del mio pallone, finito sulle lance dell’unico cancello
sopravvissuto all’ammasso dei metalli) e l’8 settembre. Tutti credevano che la
guerra fosse finita. Invece….
Invece vedemmo arrivare colonne e colonne di tedeschi e di repubblichini.
Cominciarono i rastrellamenti dei partigiani, le fucilazioni sul piazzale della
caserma Lamarmora. Poi la ritirata dei tedeschi e delle bande disperate di
fascisti che andavano al Nord saccheggiando le città e facendo saltare tutti i
centri di comunicazione: telefoni, ponti, strade e, ovviamente, centrali
elettriche. Infine, la liberazione, il 3 luglio 1944 e la sorpresa, abituati
come eravamo a squilli di tromba ed inni marziali, nel veder gli alleati sfilare
al canto di “Rosamunda”! In testa
al corteo c’erano i ragazzi di “Giustizia e libertà” e della “Garibaldi”.
Però l’Italia fu tagliata in due e noi, per diversi mesi, fino alla
capitolazione della Germania, non sapemmo più niente di mio padre. Era stato
catturato dai tedeschi l’8 settembre e deportato in Germania, lager di
Wietzendorf, dove furono rinchiusi gli
italiani che non aderirono alla repubblica di Mussolini, declassati da
prigionieri di guerra a IMI: “Italienische Militär Internierten”, internati
militari italiani. Il Führer non riconobbe il Regno d’Italia, ignominiosamente
trasferito a Brindisi, e i militari rimasti fedeli all’unica Italia vera e
legittima, furono considerati ribelli alla Repubblica Sociale Italiana.
Che mio padre fosse prigioniero dei tedeschi lo apprendemmo da Radio Monte
Ceneri che ogni sera, alle 21, trasmetteva, per conto della Croce rossa
internazionale, lunghi elenchi di prigionieri di guerra. La sigla della
trasmissione era l’intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni ed oggi, a
65 anni di distanza, se sento quel brano mi commuovo. Dopo diverse sere di
ascolto, fu letto il nome di mio padre. Tornò a casa nel settembre del 1945 dopo
due anni di stenti: il giorno della liberazione pesava soltanto 30 chili.
Ma torniamo a quel 25 aprile di 65 anni fa.
A tarda ora udimmo il suono del Campanone della Torre del Mangia: è un
evento eccezionale a Siena che può annunciare gran festa, come il Palio, o gravi
occasioni. Accendemmo la radio, sintonizzammo Radio Milano Liberata
che trasmetteva in continuazione il
proclama insurrezionale di Sandro Pertini.
Nei giorni successivi, sempre dalla radio, apprendemmo della liberazione
dell’Italia del Nord, del meschino tentativo di fuga di Mussolini e dei
gerarchi, della loro fucilazione.
I conti erano saldati, si disse allora. Mancava solo il ritorno dei prigionieri
di guerra, sparsi un po’ in tutto il mondo, e degli IMI: il governo italiano se
ne disinteressò bellamente e così gli IMI di Wietzendorf tornarono a casa con
mezzi di fortuna, su camion militari, su automezzi rubati, qualcuno in
bicicletta, sui rari treni che ancora viaggiavano. Puntarono su Friburgo con
l’intenzione di passare per la Svizzera.
Ma la Confederazione, che aveva concesso
il transito alle truppe naziste in armi, lo negò agli IMI.
Non rimase loro che attraversare la
Foresta Nera, tagliare per il Tirolo e raggiungere il Brennero.
Una forma di Resistenza poco conosciuta
La scelta degli IMI
I militari italiani di ogni arma e di ogni grado che scelsero di non collaborare
con nazisti e fascisti
dopo l’8 settembre
di Giuseppe Prunai
“Italienische Militär Internierten”, internati militari italiani, IMI. Questa la
qualifica che il Terzo Reich dette ai militari italiani, catturati in Italia e
all’estero dopo l’8 settembre 1943, anziché quella di prigionieri
Fonti italiane e tedesche concordano nel ritenere in 810mila il numero dei
militari italiani catturati dai tedeschi. Di questi, 94mila optarono subito per
la RSI o per le SS italiane (14mila come combattenti e 80mila come ausiliari). I
rimanenti 716.000 furono avviati ai lager. Di questi, 43mila optarono per la RSI
come combattenti e 60mila come ausiliari (un buon numero di questi, al rientro
in Italia, disertò passando nelle file della Resistenza). Non ostante le
sofferenze e il trattamento disumano nei lager, oltre 600mila IMI (650mila
secondo altre fonti), dei quali 40mila ufficiali, resistettero alle lusinghe di
un vitto migliore e di un immediato ritorno in Italia e dissero no alla
repubblichina di Mussolini. Almeno 50mila militari internati non fecero ritorno,
falciati dal piombo delle sentinelle, dalla fame, dal freddo e dalle malattie.
Mio padre, ufficiale di marina, era uno degli IMI: il giorno della liberazione
pesava solo 30 chili.
Sulla scelta degli IMI, dopo la guerra, calò il silenzio, rotto di tanto in
tanto dalla pubblicazione di qualche diario di prigionia o dallo studio di
qualche storico. Non si capì subito l’importanza del loro gesto. Se i circa
600mila militari internati avessero aderito in massa alla RSI, l’esercito di
Graziani si sarebbe arricchito di quelle 50 divisioni di cui favoleggiava il
Duce e la guerra, soprattutto sulla Linea Gotica, sarebbe stata più lunga e
sanguinosa con le conseguenze che è facile immaginare.
Fu alla luce di queste considerazioni che, negli anni 70, agli IMI fu
riconosciuta la qualifica di Combattente per la Libertà.