Monica Granchi: Mio nonno era comunista, Edizioni Effigi
recensione di Mario Talli
“Mi sono ammalata di
anoressia intorno ai sedici anni. Pochi anni prima, per puro caso ho
scoperto
di essere la quinta generazione femminile esistente di una longeva e frettolosa
famiglia di madri bambine, quella materna appunto. Fintanto che è vissuto, vale
a dire poco oltre i miei vent'anni, mio nonno è stato comunista. Gli altri
nonni, quelli paterni, sono stati solo dei nonni...”
Comincia così, in modo fulminante –
segno, già questo, di una scrittrice dotata – il bel racconto in forma
autobiografica di Monica Granchi: “Mio
nonno era comunista”, Edizioni Effigi.
La
protagonista è una bambina e poi
una giovane donna molto sensibile,
forse anche troppo, cresciuta in una famiglia allargata di nonne, bisnonne,
madri e nipoti, con un padre che c'è ma sembra non esserci e una giovanissima
zia piuttosto ingombrante. E poi c'è il nonno del titolo con cui ha trascorso la
maggior parte degli anni giovanili, il quale dopo aver “fatto il muratore e
molti altri faticosi mestieri” aveva concluso la sua attività lavorativa presso
la Federazione del Partito comunista di Siena. Della famiglia fa parte a tutti
gli effetti anche una gatta, Morgana, cui l'autrice
o il soggetto narrante se le due identità non corrispondono è così
affezionata da autoaccusarsi, disperata, della sua morte:
“Errare è umano, si dice. E se non fosse
stato per noi, umani, sarebbe ancora viva. La parte migliore di me è rimasta su
quel tavolo di una clinica lontana, dentro all'offensivo sacchetto di plastica
in cui i veterinari l'avevano già costretta
quando mi sono precipitata per vederla un'ultima volta. Per salutarla,
per parlarle, per dirle che no, non l'avevo abbandonata anche se tutto, lì
dentro, deve averle urlato il contrario...” La sofferenza per la morte
dell'animale è descritta con espressioni di rara intensità e al tempo stesso di
profonda verità: “Mi domando se non sia riprovevole, in tempi come questi,
riservare agli animali sentimenti da esseri umani. Sarebbe di sicuro più
meritevole investire i risparmi in qualche utile conto corrente dalle finalità
sociali. Ma chissà se sarebbe più vero. L'altruismo, a volte, è solo egoismo
mascherato. Questo dolore è mancanza. Lei mi manca. Sono io, non lei, il centro
esatto di questo dolore.”
La protagonista del
racconto, chiunque essa sia, va a
dare l'ultimo saluto alla sua gatta e non va invece, unica della famiglia ad
essere assente, al funerale del
nonno prediletto. Il motivo dell'assenza non è esplicitato, l'autrice allude di
passaggio al “comportamento
singolare noto da tempo” suo o della protagonista (il riferimento probabilmente
è all'anoressia che ha sofferto e di cui soffre tuttora), preferendo annotare la
presenza invece al rito funebre di tutti i dirigenti della
federazione provinciale dell'allora Partito comunista di Siena “con il
dolore sulla faccia e le chiavi della macchina in mano, per quando il dolore
fosse bastato allo scopo.”
Nonostante l'autenticità o meno di certi comportamenti e rituali, il comunismo
era stato come una religione per il nonno ed anche
i rapporti del resto della famiglia con l'allora Partito comunista
“furono semplici: il nostro spirito di
servizio a totale servizio di uno spirito di uguaglianza, di democrazia, di
progresso reale e condiviso, di lavoro e di lotta che ci veniva proposto come
modello. Un'idea giusta da servire. L'unica che ci venne data in cambio della
nostra abnegazione...”
Le poco
più di cento pagine del racconto sono così dense di spunti, considerazioni,
indagini introspettive, notazioni di sapore differente, ironico o commovente,
speranzoso o disperato che non è facile offrirne un riassunto in qualche modo
esaustivo. Pressoché impossibile inoltre render conto
delle mutazioni che avvengono nella mente e nell'anima della protagonista
durante la sua evoluzione da bambina, ad adolescente a giovane donna. Per non
parlare delle differenti emozioni che ella prova a cospetto della vita in città
o in campagna. A proposito della campagna, in certi momenti una prosa semplice e
apparentemente senza pretese (“Col
favore della luna prendevamo la grande strada a sterro che declinava lenta, a
larghe volte. A tratti, i rami degli alberi delle opposte pendici si
avvicinavano coprendo la luna...”)
ha la forza di richiamare prepotentemente il Pavese di “Paesi tuoi” o della
“Luna e i falò”.
L'anoressia non facilita certo la vita della protagonista. Ma non è la causa
delle sue difficoltà, a quanto ci sembra di capire ne è piuttosto l'effetto.
Tutto sommato, in ogni modo, colei che è ormai diventata una donna ha tutti gli
strumenti di cuore e di cervello per decifrare stati d'animo e situazioni, che è
il sistema più semplice ed efficace per alleggerirne le conseguenze.
Il
racconto è così ben strutturato tra pensieri ed azioni dei personaggi e il
rapporto dei medesimi con l'ambiente, che si può a buon diritto parlare della
presenza di un terzo attore, oltre il nonno e la nipote: Siena e la sua
provincia, contrade per tanti anni tra le più rosse d'Italia. Tale particolarità
non aveva contagiato soltanto il nonno del titolo, ma anche la protagonista del
racconto, che infatti patirà molto la morte di Enrico Berlinguer
(“Ricordo quel momento come una
fucilata...ero a una festa di
classe...qualcuno dette la notizia. Ci facemmo intorno alla Tv. Curiosi e
increduli. Poi, arrivarono le immagini. Cominciai a piangere lacrime
sommesse...”) e le mutazioni
che il Pci subirà nel corso degli anni fino addirittura alla scomparsa del nome.
Anche di tutto questo ella
soffrirà, ma a risarcirla in qualche modo provvederà la sua lucidità:
”Credo che una dose di infelicità fosse
connaturata all'idea stessa di comunismo. Come una tassa da pagare. Un tributo
da rendere per essere migliori. Per far parte di un cammino di progresso giusto
e consapevole. Avevamo avuto il nostro riscatto ma eravamo coscienti di essere
ancora noi gli umili, gli oppressi. Con lo sguardo al futuro, non perdevamo mai
di vista il passato.”
Come in qualche modo abbiamo già detto, la narrazione scorre su piani
differenti che si intersecano frequentemente tra di loro: c'è la perdita con il
suo strascico di dolore, il rimpianto e la tristezza che non di rado trascolora
nell'ironia e perfino nell'umorismo. C'è, infine, anche
la disperazione. Quel che non c'è mai -
se non abbiamo inteso male – è la felicità. Ma forse questo è un
sentimento raro nella società di oggi.
IL VOLTO DELL’ICONA
Recensione di Pia Bassi
Patrizia Mugnano: “Il volto dell’icona – Visione d’Oriente e sguardo
d’Occidente”, ABEditore
È uscito in questi giorni il libro “Il volto dell’icona. Visione d’Oriente e
sguardo d’Occidente”
(ABEditore),
una saggio sull’arte dell’icona e sulla sua funzione simbolico-liturgica.
Il testo nasce dalle esperienze divulgative dell’autrice, esperienze che hanno
maturato la consapevolezza della necessità di un manuale che approcciasse
l’argomento in termini semplici e omnicomprensivi per un più vasto pubblico,
riuscendo nella difficile impresa di spiegare argomenti complessi in modo piano
e affatto banale.
Interessante la scelta di iniziare inquadrando semanticamente il tema, scelta
che suggerisce sin dall’inizio la tesi che sottintende all’intero saggio, ovvero
che l’arte sacra orientale e l’arte religiosa occidentale debbano la loro
diversità non al “tradimento” dei pittori rinascimentali (pur nell’ampia
accezione temporale che alcuni recenti studi hanno dato al termine), ma alla
differente sensibilità culturale all’interno della quale si sviluppano, fin
dalle origini, le due tradizioni liturgiche. Di conseguenza gli esiti del
movimento iconoclasta, che determinano la prima cesura dichiarata tra oriente e
occidente, devono essere visti come il punto di arrivo di un processo di
trasformazione teologico-artistica più che come il punto di partenza di tale
evoluzione. La diversità semantica sottintende una diversità mistico-liturgica
che il tempo e le vicende politiche vanno a sottolineare con sempre maggior
forza, trasformando una piccola linea di demarcazione in un baratro profondo che
solo oggi sembra trovare alcuni punti di riavvicinamento, anche a causa della
crisi che da entrambe le parti sta vivendo l’immagine sacra.
Particolarmente valido come aiuto alla comprensione di temi spesso complessi per
i neofiti della materia è il confronto, più volte proposto, tra icone e opere
d’arte sacra occidentale. Ampio spazio è inoltre offerto all’analisi di temi
collaterali raramente trattati in saggi dedicati all’icona, quali gli esiti
dell’utilizzo del modulo bizantino dall’antichità fino a Le Corbusier, la
visione della luce di Dionigi l’Areopagita o l’influenza avuta da questa forma
d’arte sulle avanguardie (tale tema, semplicemente accennato, meriterebbe una
più esaustiva riflessione).
Di assoluta novità nel panorama degli studi sull’icona e dell’arte religiosa in
genere resta comunque l’ampia visione d’insieme che abbraccia comparativamente
lo sviluppo artistico dell’arte dell’intera cristianità, offrendo una lettura
non oppositiva, ma complementare, dei relativi esiti. Tesa a supportare la
ricerca delle ragioni che stanno alla base di esiti tanto differenti per le due
tradizioni liturgiche, tale lettura offre l’occasione per un confronto tra
prospettiva, fondamenti teologici, motivazioni storiche, caratteristiche
iconografiche, portato avanti evitando ogni traccia di quegli accenti polemici
che spesso hanno caratterizzato gli scritti di illustri precedenti. All’interno
di questa operazione anche le opere di eminenti teologi del secolo scorso quali
Pavel Florenskij e Pavel Evdokìmov, imprescindibili nello studio di questa
materia, vengono presentate contestualizzandole al relativo periodo storico, e
fornendo una solida base di partenza per una analisi che vuole mettere in luce
caratteristiche e specificità rifiutando, come irrilevante, la domanda su quale
sia la migliore espressione del sacro nell’arte.
I capitoli finali sono dedicati agli esiti moderni dell’arte dell’icona e alla
“crisi delle immagini” che ha investito l’arte religiosa occidentale e che ha
dato il via all’abitudine di collocare icone all’interno delle chiese,
operazione valutata negativamente perché, oltre ad incentivare la produzione di
icone in serie e a collocarle in un contesto liturgico straniante, è anche un
espediente attraverso il quale le chiese occidentali tendono ad evitare di porsi
il problema dell’arte religiosa moderna e del suo rapporto con la liturgia
(problema meditato più volte nei recenti convegni della Comunità di Bose).
Il manuale è di formato agile e maneggevole, composto da 250 pagine, con molte
tavole a colori. Lo stile è gradevole e accattivante, capace di tenere viva
l’attenzione e di stimolare la curiosità del lettore anche sui temi meno
gratificanti della ricerca storica: una guida di sicura utilità anche per i
neofiti della materia capace di offrire numerosi motivi di interesse anche per
il lettore più esperto.