Si celebra ogni anno il 27 gennaio anniversario della liberazione del lager di
Auschwitz da parte dei militari dell’Armata Rossa
La ricorrenza e il ricordo di una visita ai resti del lager di Dachau, trasformati in un museo, hanno ispirato queste riflessioni a
Magali Prunai
Il 27 gennaio di ogni anno, in tutto il mondo si celebra la “Giornata della
Memoria” delle vittime dell’Olocausto.
Fu il 27 gennaio 1945 che
le porte di Auschwitz furono aperte dalle truppe sovietiche dell’Armata
Rossa. La tragedia della
deportazione nazista non può più essere celata davanti al mondo intero. I russi
trovano ancora in vita settemila prigionieri, degli scheletri che si reggono in
piedi per pura forza di volontà,
per il solo desiderio di non morire e di tornare un giorno a casa. Ma le
testimonianze viventi di quanto accadeva non sono l’unico macabro ritrovamento:
nel campo di concentramento vengono rinvenuti oggetti appartenuti a molte più
persone di quelle presenti al momento della liberazione, ci sono fosse comuni,
vengono scoperti i forni crematori e le camere a gas, tonnellate di capelli
umani imballati e pronti per essere trasportati. In questi giorni spesso ho
visto in molti documentari le immagini della liberazione di Auschwitz e
continuamente ho visto capelli su capelli pronti per essere inviati in Germania
e usati per fare delle parrucche.
Mi colpisce una treccia, presumibilmente bionda, di una giovane donna. E’ una
treccia perfetta, splendida certamente di
una ragazza che non ce l’ha fatta,
che non c’è più. Il destino
le ha giocato una beffa atroce:
bastavano pochi giorni o forse poche settimane e sarebbe stata una dei tanti
fortunati a tornare a casa. Purtroppo non è così, purtroppo non ha conosciuto le
meraviglie della vita. Il matrimonio, i figli, i nipoti, il lavoro. L’ultima
cosa che ha visto è stata una stanza fredda, piena di altre donne, tutte
svestite. Convinte di dover fare una doccia, o ormai consapevoli che quello
sarebbe stato l’ultimo luogo che avrebbero visitato. E’ in una camera a gas dove
dice addio per sempre a se stessa, alla vita, a tutti i suoi sogni e ai suoi
affetti.
I CIELI DI DACHAU
di Magali Prunai
E’ una bella mattina di Marzo, il sole caldo splende nel cielo e il freddo dei
giorni scorsi che ha portato la neve a Monaco di Baviera comincia a prendere
altre direzioni, impacchetta le sue cose e lascia finalmente un breve spazio
alla primavera. Le temperature sono ancora molto basse, ma nulla in confronto
alla bufera dei giorni passati.
E’ un bel sabato mattina, mi alzo presto e, dopo una veloce colazione consumata
con la famiglia che mi ospita in Germania per lo scambio culturale, raggiungo le
mie compagne di scuola alla stazione. Direzione Dachau, il treno arriva nel
centro di questo piccolo paesino bavarese. Mi guardo intorno, è il classico
villaggio tedesco. Saliamo su un autobus per raggiungere la periferia, là, in
mezzo alle case, si trova l’entrata per i turisti al campo di concentramento.
L’entrata non è delle migliori, una delle docenti che ci accompagna sostiene che
Dachau fu costruita come residenza per i deportati ebrei impiegati nelle
fabbriche vicine, sostiene anche che in quel campo nessuno è mai morto nelle
camera a gas o nei forni. Peccato che la storia racconti una versione diversa.
Siamo nel 1933, è il 22 marzo, il primo campo di concetramento viene aperto: si
tratta di quello di Dachau. Progettato inizialmente per la custodia preventiva
di prigionieri politici come comunisti e sindacalisti, a partire dal 1935 vi
vennero deportati ebrei tedeschi e austriaci, testimoni di Geova, zingari sinti
e rom. Il forno crematorio inizia il suo lavoro a partire dal ’40. Negli anni
successivi vengono costruti nelle vicinanze di Dachau dei campi satellite che,
in totale, arriveranno a contenere fino a 63.000 prigionieri.
Le scarse condizioni igieniche e la
malnutrizione mieterono numerose vittime e tanti morirono per il lavoro. Nel
1943 s’inagura la costruzione di ben quattro forni crematori nuovi e una camera
a gas, tutti ampiamente usati.
Durante la visita è possible vedere i forni, la camera a gas e una baracca
lasciata per i turisti. Il terrore è nel cuore e negli occhi.
Sono in uno spazio polveroso e terroso, mi guardo in giro per decidere da che
parte cominciare la mia visita- ricordo. Non lo so e non riesco a decidere tanto
è lo stupore. Vedo la campagna nelle vicinanze del campo, vedo le case della
periferia quasi attaccate all’entrata posteriore. Veramente non sapevano nulla i
tedeschi dell’epoca? Veramente non sapevano dei campi di concentramento e dello
sterminio o dell’odio ingiustificato mentre battevano le mani alle SS che
arrestavano il vicino di casa, il compagno di banco, il negoziante di fiducia
rei solamente di avere un culto diverso? Veramente non immaginavano quanto
stesse accadendo quando vedevano passare per le loro campagne treni merci dai
cui vagoni provenivano urla, richieste di aiuto e lamenti di dolore? Riesce
difficile pensarlo, quasi impossibile.
Quasi in lacrime per questi pensieri ritorno con la mente ai miei studi di
storia passati, quando m’insegnarono l’importanza di quello stesso campo che sto
visitando. Sono perplessa e turbata dall’indifferenza e maleducazione degli
altri visitatori. A una ragazza cade una cartina per terra e non si preoccupa di
raccoglierla, la guarda quasi divertita mentre lentamente il vento la trasporta
lontana da lei. Decido di andare ai forni e alla camera a gas, pensando che il
luogo più doloroso da vedere sia proprio quello. Il luogo dove in molti hanno
trovato la morte senza ragione. Davanti ai forni il respiro si fa affannoso,
nella camera a gas cessa per alcuni secondi. Quando esco il respiro torna man
mano regolare, anche se vedere l’interno di una baracca non è d’aiuto. Ma quando
penso che il peggio sia passato entro nella sala – museo. Sono esposti parecchi
oggetti appartenuti ai deportati: il rasoio per la barba, la casacca a strisce,
un pettinino. Poi uno schermo enorme che
a ciclo continuo manda immagini della liberazione. Si vedono corpi di cadavari
accatastati l’uno sull’altro, sopravvissuti e tutto quello che normalmente si
vede alla tv nei giorni antecedenti e successivi alla giornata della memoria. Ma
essere spettatore di un filmato del genere nel luogo dove è stato girato è
qualcosa di atroce per il cuore, per la mente e per lo spirito.
Corro fuori dal museo con le lacrime che a stento trattengo, corro senza sapere
dove sto andando con il solo desiderio di fuggire da quel luogo terribile quando
sotto ai miei piedi, impolverate e un po’ nascoste, quasi a non voler farsi
vedere, trovo le rotaie del treno. Mi giro e alzo lo sguardo, davanti a me una
scritta: “Arbeit macht frei”. Sono alla vera entrata del campo. Con le lacrime
che ormai scendono copiose sulle guance torno al punto di ritrovo della mia
classe per tornare a Monaco. Sulla via del ritorno, mentre cammino verso la
fermata dell’autobus, mi giro a guardare il campo e mi ritorna alla mente una
poesia che portai all’esame di quinta elementare. S’intitolava “Cielo di Dachau”
e solo in quel momento l’ho capita veramente.
CIELO DI DACHAU
“Quanti hanno guardato,
cielo di Dachau,
così come ti guardo io
distesa sotto questi alberi?
Oggi c’è pace e silenzio
nel bosco
che circonda il campo
e dietro il filo spinato
hanno piantato un verde,
silenzioso giardino.
La bocca del forno
spalancata
non incute paura
e la camera a gas
pare un innocente
e pulito locale.
Ma voi,
morti che dormite
sotto questa terra
voi, cenere dispersa,
voi, che foste disperati
sotto questo cielo,
con quale sguardo
contemplaste
il cielo di Dachau
grigio e immobile
sopra la vostra morte?”
di M.Panagia