poca voglia di cambiare
Il riscaldamento globale di origine antropica
è il male peggiore del pianeta,
ma nessuno vuole adottare una terapia efficace
di Irene Prunai
I recenti fatti delle Filippine e della Sardegna e più recentemente della
Calabria, delle Marche, degli Abruzzi, hanno riacceso l’interesse dell’opinione
pubblica sulla questione dei cambiamenti climatici. E a poco tempo dalla
conclusione della
Il clima della terra non è mai stato costante. Basti pensare alle ultime decine
di migliaia di anni che hanno visto un alternarsi di ere glaciali e periodi
interglaciali caldi. Però è dalla fine del diciannovesimo secolo che il pianeta
vede un costante aumento della temperatura dovuto non solo alla ciclicità del
clima ma soprattutto all’attività umana. Quindi quando si parla di mutamenti
climatici è d’obbligo fare una distinzione tra variazioni climatiche vere e
proprie, influenzate da cause esterne quali il vento solare e le oscillazioni
dell’asse terrestre, e riscaldamento globale di origine antropica.
Purtroppo quest’ultimo è il fenomeno più
preoccupante. Insomma, è inutile girarci troppo intorno, la colpa è dell’uomo e
la scienza ne dà conferma.
Il nuovo Rapporto sui Cambiamenti Climatici, presentato a Stoccolma alla fine di
Settembre dal Gruppo Intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici
(IPCC), sostiene che l’impronta dell’uomo possa essere trovata nel riscaldamento
dell’atmosfera e degli oceani, nell’innalzamento dei livelli del mare, nello
scioglimento dei ghiacci e nei cambiamenti di alcuni eventi climatici estremi.
Ma come può l’uomo fare tutto questo? Semplicemente con l’immissione di gas a
effetto serra nell’ambiente. Tra questi il principale è l’anidride carbonica, i
cui effetti furono studiati la prima volta da C.D. Keeling nel 1958 che scoprì
la correlazione tra aumento dell’emissione della CO2 e riscaldamento. Altri gas
a effetto serra sono il metano,
l’ossido nitroso, gli idrofluorocarburi, i perfluorocarburi e l’esafluoruro di
zolfo, tutti elencati dal famoso protocollo di Kyoto. Inoltre non possiamo
dimenticare che tra le varie attività umane le più incisive dal punto di vista
ambientale sono quelle che portano all’uso di combustibili fossili per la
produzione di energia elettrica, i processi industriali e i trasporti, per non
dimenticare l’agricoltura e gli allevamenti di tipo intensivo. Detta così
qualsiasi attività umana sta dando il suo contributo per la distruzione del
pianeta. Allora come affrontare l’argomento in modo non catastrofista? Per
esempio un passo avanti potrebbe essere quello di affrontare le cause di questa
situazione in modo globale. I tentativi ci sono stati, dal protocollo di Kyoto
all’ultima Conferenza delle Parti sui Cambiamenti
Climatici, ma i risultati lasciano a desiderare. In quest’ultima conferenza gli
accordi presi riguardano quasi esclusivamente lo “loss & damage”, una sorta di
assicurazione che i paesi più ricchi pagheranno ai paesi in via di sviluppo in
caso di eventi climatici estremi. Per quanto riguarda il taglio delle emissioni,
l’unico argomento veramente importante da affrontare, tutto è rimandato al 2015.
Uno sguardo sull’Italia
La comunità scientifica è consapevole del fatto che il nostro pianeta dovrà
affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, alcuni già in corso ed
altri che potranno accadere in un futuro anche prossimo.
Probabilmente questo accadrà anche se le
emissioni di gas serra saranno ridotte nei prossimi decenni attraverso politiche
di scala globale. Insomma ormai il danno è fatto e anche se possiamo pensare in
un futuro di rimediare per ora l’unica cosa da fare è cercare di tamponare la
falla.
È stato stimato che nei prossimi decenni la regione del Mediterraneo dovrà far
fronte a eventi climatici negativi che renderanno il nostro territorio una delle
aree più vulnerabili d’Europa. I potenziali impatti attesi dei cambiamenti
climatici e le principali vulnerabilità per l’Italia sono stati elencati in un
recente rapporto del ministero dell’ambiente come segue:
-
riduzione della qualità e della disponibilità di acqua, soprattutto in estate
nelle regioni meridionali e nelle piccole isole
-
possibili alterazioni del regime idro-geologico che potrebbero aumentare il
rischio di frane, flussi di fango e detriti, crolli di roccia e alluvioni lampo.
Le zone maggiormente esposte al rischio idro-geologico comprendono la valle del
fiume Po (con un aumento del rischio di alluvione) e le aree alpine ed
appenniniche
-
possibile degrado del suolo e rischio più elevato di erosione e desertificazione
del terreno
-
maggior rischio di incendi boschivi e siccità per le foreste italiane
-
maggior rischio di perdita di biodiversità e di ecosistemi naturali, soprattutto
nelle zone alpine e negli ecosistemi montani;
-
maggior rischio di inondazione ed erosione delle zone costiere a causa di una
maggiore incidenza di eventi meteorologici estremi e dell’innalzamento del
livello del mare
-
potenziale riduzione della produttività agricola soprattutto per le colture di
frumento, ma anche di frutta e verdura;
-
sono possibili ripercussioni sulla salute umana, specialmente per i gruppi più
vulnerabili della popolazione, per via di un possibile aumento di malattie e
mortalità legate al caldo, di malattie cardio-respiratorie da inquinamento
atmosferico, di disturbi
-
potenziali danni per l’economia italiana nel suo complesso, dovuti alla
possibilità di un ridotto potenziale di produzione di energia idroelettrica
-
a un calo della produttività nel settore
della pesca
Dal rapporto del ministero inoltre scopriamo la valutazione dell’impatto
economico dello scenario futuro. È stato stimato che se la temperatura salisse
di 0,93°C, la perdita aggregata di Prodotto Interno Lordo (PIL) indotta dai
cambiamenti climatici nella prima metà del secolo (2001-2050) potrebbe essere
pari ad una perdita dell’ordine dei 20-30 miliardi di Euro. In particolare
alcuni settori, come il turismo e l’economia delle regioni alpine, potrebbero
subire danni significativi. Nella seconda metà del secolo, inoltre, gli impatti
attesi sono ancora più rilevanti, con una riduzione del PIL che nel 2100
potrebbe essere addirittura sei volte più grande che nel 2050.
L’uragano che si è abbattuto pochi
giorni fa sulla Sardegna conferma quanto sostenuto da questo rapporto. Un evento
che ci ostiniamo a considerare insolito e che ci porta a intervenire solo quando
il disastro è ormai accaduto. “Prevenire è meglio che curare”, sosteneva una
vecchia pubblicità. Purtroppo il rapporto del ministero si concentra più che
altro sulle “strategie di adattamento ai cambiamenti climatici”, ma del resto la
prevenzione deve essere decisa a livello globale.