Tonino Cantelmi: “Tecnoliquidità – La psicologia ai tempi di internet: la mente
tecnoliquida”. Edizioni San Paolo, pag. 238, € 17,00
Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta, dirigente della Scuola di
specializzazione in psicoterapia cognitiva interpersonale di Roma, è il primo a
studiare, nel nostro paese, l’impatto della tecnologia digitale sulla mente
umana.
Secondo Cantelmi, stiamo vorticosamente
precipitando in una “società incessante”, sempre attiva, sempre più
incapace di staccare la spina, sempre intenta a digitare, a twittare, a
condividere, senza differenze tra giorno e notte, tra feriale e festivo, tra
casa e ufficio, forse avviata verso una colossale dipendenza dalla
“connessione”. In tal modo la rivoluzione digitale e la virtualizzazione della
realtà intercettano, esaltano, plasmano alcune caratteristiche dell’uomo
liquido: il narcisismo, la velocità, l’ambiguità, la ricerca di emozioni e il
bisogno di infinite relazioni light. Alla fine, quest’uomo supertecnologico,
supertecnoliquido dovrà fare i conti con l’esasperazione della solitudine
esistenziale. Forse non saranno né
Twitter né Facebook, né altre forme di
socializzazione virtuale a placare l’irriducibile bisogno di “incontro con
l’altro-da-sé” che è proprio dell’uomo e della donna di ogni epoca: Il bisogno
di “incontro con l’altro” nell’autenticità prepotente e vitale che oltrepasserà
il mondo tecnoliquido.
Francesco D’Agostino – Giannino Piana: “Io vi dichiaro marito e marito – Il
dibattitto sui diritti delle coppie omosessuali”. Edizioni San Paolo, pag. 160,
€ 12,00
Per la verità, la maggior parte
degli stati che ha legittimato il matrimonio gay, ha adottato la formula
“vi dichiaro uniti in matrimonio”.
Quella formulazione “marito e marito” (e lo sarebbe anche “moglie e
moglie”) ci sembra leggermente derisoria. Al di là del titolo, il testo è un
trattatello sulla regolamentazione delle convivenze tra coppie gay,
dell’adozione per coppie non sposate, sui diritti e i doveri delle coppie
omosessuali. D’Agostino e Piana offrono
due posizioni divergenti, ma disponibili al confronto, così da formare un quadro
complessivo sulle ragioni in campo per uno dei nodi etici e politici del nostro
tempo.
Francesco D’Agostino è ordinario di filosofia del diritto all’Università di Rona
Tor Vergata, presidente dell’Unione giuristi cattolici e Presidente onorario del
Comitato di bioetica. Giannino Piana ha insegnato etica cristiana presso la
Libera università di Urbino ed Etica ed economia presso l’Università di Torino.
Il dono della Vergogna
Una vicenda della Siena dei primi anni del ‘900
recensione di Giuseppe Prunai
Vittorio Meoni: “La Casa del Popolo di Siena e il “dono della vergogna” –
Presentazione di Sergio Cofferati – Nuova Immagine editrice, Siena, 2003
L’aver trovato, fra le carte di famiglia, un’obbligazione rimborsabile (foto
sopra), intestata a mio nonno, del quale sono omonimo, della Banca cooperativa
ferroviaria di Siena, Pro casa per il popolo, mi ha indotto a fare alcune
ricerche. La curiosità maggiore era perché mio nonno, un bancario, molto attento
ai propri investimenti, non avesse incassato l’obbligazione alla sua scadenza?
Semplice: tali obbligazioni non furono mai rimborsate. Siamo nei primi anni del
1900 quando fu lanciato il prestito per costruire la Casa del Popolo con annessa
Camera del lavoro. A sottoscriverlo, soprattutto
ferrovieri, tipografi, mezzadri, artigiani e pochi
borghesi illuminati.
Una breve ricerca, mi ha fatto imbattere un libro, pubblicato sotto l’egida
dell’ Istituto storico della Resistenza senese e dell’Archivio del Movimento
operaio e contadino in provincia di Siena, in cui la vicenda della Casa del
Popolo di Siena è spiegata nei minimi dettagli.
Due parole sull’autore: Vittorio Meoni, dirigente di spicco dell’ANPI di Siena,
è l’unico sopravvissuto all’eccidio di Montemaggio, nella Montagnola senese, nel
comune di Monteriggioni. Era il 28 marzo 1944. Venti
partigiani della brigata “Spartaco Lavagnini” furono catturati, dopo un
furioso combattimento, dai militi repubblichini e trasportati in località
Porcareccia dove furono trucidati a raffiche di
mitragliatrice. Uno di costoro, Vittorio Meoni, si lanciò a corsa pazza
nel bosco. Ferito ad un fianco durante la fuga, fu raccolto da alcuni contadini
che lo nascosero e poi lo affidarono alle cure di un medico che lo operò
salvandogli la vita e lo ricoverò allo Spedale di Santa Maria della Scala (oggi
uno dei maggiori centri museali d’arte italiani) dove rimase nascosto per il
periodo di cura e di convalescenza. Da aggiungere, che il policlinico senese
pullulava, nei suoi innumerevoli sotterranei, di personaggi che si nascondevano
per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e fascisti: ebrei, partigiani, renitenti
alla leva fascista, antifascisti nel mirino della milizia repubblichina,
prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di prigionia.
Inaugurata il 1° maggio 1905, la Casa del popolo sorgeva in un nuovo edificio
con le facciate in travertino nel centro della città, a pochi passi dalla Rocca
Salimbeni, storica sede del Monte dei Paschi. Per costruirla furono
abbattute vecchie costruzioni fatiscenti e i resti dell’antica Torre del
Pulcino. Al suo interno oltre ad uffici e sale per le riunioni, un teatro e un
bar. Insomma una sede da fare invidia. E invidia ne suscitò parecchia,
non solo per la sua estetica quanto soprattutto per ciò che
rappresentava, per essere un “simbolo”
come scrisse Filippo Turati.
Il
7 marzo 1920 subì un primo assalto da parte dei fascisti. L’occasione fu
l’inaugurazione del vessillo dell’Associazione degli ex combattenti. Su
istigazione di un gruppo di fascisti, il corteo con degli ex combattenti deviò
dal suo percorso dirigendosi verso la Casa del popolo, presidiata dalle forze
dell’ordine che non impedirono l’irruzione dei fascisti al suo interno. Ci
furono devastazioni, fu appiccato un incendio e, secondo quanto riferito dal
Meoni, un appuntato dei carabinieri, in preda all’agitazione dovuta al tumulto,
sparò un colpo di rivoltella ad altezza d’uomo ferendo mortalmente un
giovanissimo operaio delle ferrovie, Enrico Lachi, 18 anni, militante
socialista, che morì pochi giorni dopo.
L’inchiesta della magistratura non portò a nulla, mentre in un rapporto del
prefetto si leggeva che “un appuntato dei carabinieri ricevette una bastonata
che colpì la rivoltella che egli impugnava, determinando l’ esplosione del colpo
che non si esclude fosse quello che ferì certo Lachi Enrico”. Una versione che,
sia pure con le necessarie variazioni sul tema, avremmo letto ancora, anche in
epoca piuttosto recente come dopo i fatti di Genova.
L’impressione e la preoccupazione in città fu enorme. Fu proclamato uno sciopero
generale. La stampa di sinistra, ribattezzò “malamerita” l’arma del carabinieri.
Ai funerali del Lachi parteciparono non meno di quindicimila persone. Il corteo
era così enorme che non poté entrare nel cimitero. L’orazione funebre, fu tenuta
sul piazzale antistante l’ingresso principale.
Prefetto e questore, assicurarono drastiche misure per impedire altri disordini,
ma il 4 maggio 1920, mi fascisti assaltarono nuovamente la Casa del popolo con
nuove devastazioni e distruzioni dell’edificio.
Il terzo assalto è del quattro marzo 1921, più o meno ad un anno dal primo. Il
clima era estremamente teso in città: ad Empoli, in scontri tra fascisti e
antifascisti c’erano stati morti e feriti, a Firenze i fascisti avevano
assassinato il segretario regionale del sindacato ferrovieri, Spartaco
Lavagnini. Ci fu una dimostrazione di fascisti in città che culminò con un nuovo
assalto alla Casa del Popolo. Dal gruppo dei fascisti furono sparati dei colpi
di pistola al che i militari schierati a difesa dell’ordine pubblico aprirono il
fuoco contro l’edificio, addirittura con due cannoncini da 65 mm con i quali fu
abbattuto il portone d’ingresso. Irruzione di fascisti e militari, altre
devastazioni, violenze: il segretario della Camera del lavoro, Cavina, fu
bastonato a sangue dai fascisti e successivamente colpito più volte alla testa
con pistole e carabine da parte dei carabinieri. A questo terzo assalto ne seguì
un altro nell’agosto del 1922.
Si tratta di storie, aggiungo di mio, che tutti i vecchi senesi raccontavano ai
nipoti, arricchendole ogni volta di particolari e di dettagli inediti. Fra
questi, una circostanza che ho sempre udito da ragazzo. Alcuni degli assediati
si nascosero nelle cantine da dove, attraverso la
serie di cunicoli e di gallerie sotterranee di cui Siena è piena,
raggiunsero la zona dove si trova lo Stadio del Rastrello, oggi intitolato da
Artemio Franchi. Non disponendo né di torce né di candele, si dice che siano
fatti luce bruciando alcune banconote. Una storia che ha il sapore di una
leggenda metropolitana ma che comunque testimonia il clima di terrore e di
disperazione dei lavoratori dinanzi alla dilagante violenza fascista.
Dopo le distruzioni, l’appropriazione dell’edificio realizzata infiltrando nuovi
soci nella cooperativa che ne era proprietaria. In breve, i fascisti ne presero
il controllo e tutte le sedi
fasciste di Siena si trasferirono nell’edificio che ormai si può chiamare
dell’ex Casa del Popolo. Ma era necessaria una ristrutturazione dell’intero
palazzo contraendo con il Monte dei Paschi due mutui garantiti da un ipoteca
sullo stabile. Il mutuo non fu mai rimborsato e i dirigenti del Monte dei Paschi
avviarono le procedure per acquisire l’immobile a saldo. Difficile e laboriosa
la trattativa tra la banca ed il
partito del dittatore. Alla fine, si
venne ad un accomodamento. La banca avrebbe donato al partito fascista un’altra
sede individuata in Palazzo o Villa Ciacci, un immobile immenso praticamente nel
centro della città, con annesso un vasto giardino recintato. All’epoca era stato
acquistato da un privato per circa 400.000 mila lire e rivenduto al Monte dei
Paschi per 850.000 mila (più del doppio) e messo a bilancio per 912.663,65.
L’ex Casa del popolo fu acquistata dal Consorzio agrario provinciale
di Siena dove tutt’ora è la sua sede.
Più complesse le vicende di Palazzo Ciacci, della cosiddetta Casa del Fascio,
con annessa una casermetta della Milizia che, nel periodo repubblichino,
funzionò un’unità simile a quella della Famigerata Villa Triste o del carcere di
via Tasso, a Roma. Sequestrata dalle forze armate alleate, dopo la liberazione,
e, successivamente, dall’autorità militare italiana per farne la Casa del
Soldato, fu rivendicata dal Monte dei Paschi che annullò l’atto di donazione.
Mentre ogni azione giudiziaria dei sindacati senesi per rientrare in possesso
della loro sede non ebbe esito, quella del Monte dei Paschi per riottenere la
proprietà di Palazzo Ciacci andò a buon fine nel 1954.
Dopo numerosi appelli e l’intervento del comune, i locali della famigerata
Casermetta sono divenute le “stanze della memoria”.