del partigiano Jhonny-Beppe Fenoglio
Che fine hanno fatto le dotazioni belliche dei partigiani? Furono veramente
occultate per fare la rivoluzione e per ripulire il Paese dai fascisti?
di Giuseppe Prunai
Erano nel doppiofondo di un armadio, tra
coperte e lenzuola, avvolte in un fagotto azzurro, le armi del Partigiano
Johnny, Beppe Fenoglio. Le ha trovate la figlia dello scrittore, Margherita,
riordinando la casa di Alba ove i suoi genitori hanno vissuto. E’ singolare che
il ritrovamento sia avvenuto esattamente a 50 anni dalla scomparsa di Fenoglio.
Si tratta di una carabina Winchester M1, calibro 30, e di una pistola Colt 45
automatica, (a sinistra)
temporaneamente
affidate ad un armiere per il loro restauro. A formalità burocratiche concluse,
verranno donate al Centro studi dedicato allo scrittore.
Che queste armi fossero nascoste in casa di Fenoglio lo sospettavano in molti,
ma nessuno aveva mai fatto ricerche dopo la morte dello scrittore avvenuta nel
1963.
Si è favoleggiato a lungo sulle armi dei partigiani.
Dopo l’aprile del ’45, quando le brigate furono smobilitate, le autorità
alleate ordinarono la consegna di qualsiasi dotazione bellica. In molte città,
si svolsero addirittura delle cerimonie militari. I partigiani sfilarono in armi
e al termine della sfilata deponevano i
loro armamenti nei camion. Si trattò di cerimonie a forte impatto emotivo. Un
comandante partigiano disse: “dopo aver gettato il mitra sul camion americano,
mi sono sentito come nudo e completamente demotivato”. Fra il combattente e la
propria arma si instaura un rapporto che, a volte, ha del morboso perché
è da quella che dipende la sua sopravvivenza ed è
comprensibile che il distacco non sia indolore e che, in alcuni casi, la
consegna non sia avvenuta. Alla base della mancata consegna c’erano, sì motivi
affettivi ma anche la sensazione che la Resistenza non fosse del tutto conclusa,
che ci fosse altro lavoro da fare.
Forse quella rivoluzione proletaria di cui molti favoleggiavano e che non fu mai
fatta perché chi doveva accenderne la miccia se ne guardò bene per evitare al
Paese una pesante guerra civile e per la consapevolezza che in base agli accordi
di Yalta le cose non sarebbero andate per il verso sperato.
Gli americani non fecero un censimento di quanto consegnato, ma da
dichiarazioni di ufficiali e documentazioni frammentarie, a finire sui camion
furono soprattutto le rare mitragliatrici pesanti e le numerose
leggere, qualche mortaio e tutti quegli
ordigni la cui conservazione non era disgiunta da rischi, come casse di
esplosivo, bombe a mano, mine anticarro e antiuomo.
Ma la massa delle armi consegnate va
ricercata fra gli armamenti individuali: mitra, fucili, moschetti e carabine.
Pochissime le pistole. E questo è comprensibile perché
è facile nasconderle e poi perché le città, nel ’45 e negli anni
successivi, erano tutt’altro che sicure e non dispiaceva circolare con una
pistola in tasca. In quegli anni, si registrarono numerosi fatti di cronaca nera
come rapine e regolamenti di conti. Si formarono, addirittura, vere e proprie
bande di delinquenti. Ricordiamo fra tutte, la Banda Fabbri che operava in
Toscana responsabile di un impressionante numero di omicidi a scopo di rapina.
Cifre ufficiali sulle armi in circolazione in quegli anni e quelle riconsegnate
non ci sono, ma c’è il consueto balletto di numeri sugli armamenti ritrovati in
grotte in montagna, nei fienili, nei solai dei
cascinali, nelle cantine delle case di città. Si tentò di accreditare la teoria
secondo la quale erano stati predisposti tanti arsenali, dei quali in pochi
conoscevano l’ubicazione, ai quali attingere in caso di necessità. E la parola
“necessità” per i governanti
democristiani succeduti al Governo Vento del Nord di Ferruccio Parri (foto a
destra) voleva dire “rivoluzione rossa”. Da qui, le cifre gonfiate man mano che
ci si avvicinava al 18 aprile 1948, al grande scontro tra il partito cattolico e
il fronte socialcomunista, per spaventare i benpensanti, la borghesia, il ceto
medio e il medioalto con il fantasma di un’ormai improbabile rivoluzione
bolscevica.
Certamente, alcuni ex partigiani sotterrarono le proprie armi o le murarono in
una parete della propria abitazione.
In un suo libro, Tiziano Terzani racconta di suo padre, partigiano, che
nascose in un muro il proprio fucile ed alcuni caricatori. Personalmente, sono
sicuro se andassimo a sondare le pareti di molti appartamenti fiorentini del
quartiere di San Frediano o delle Cure si avrebbe qualche sorpresa. Fino a
qualche anno fa fra i vecchi fiorentini
che avevano fatto la Resistenza, circolava un adagio che ripetevano con rabbia
quando le cose non andavano per il loro verso: “Ora si smura”.
Si è favoleggiato a lungo sulle armi del partigiani, quanto si è minimizzato su
quelle delle SAM, le Squadre d’azione Mussolini che dopo l’aprile-maggio del ’45
tentavano la ricostituzione della RSI.
Intendiamoci,
nei loro confronti, le forze dell’ordine non fecero sconti. Molti di quegli
“squadristi” furono arrestati e
condannati, molte le armi sequestrate. Ma a questi episodi si dette meno
importanza, ebbero scarsa risonanza mediatica e si chiuse un occhio quando i
nostalgici di Salò scelsero la via democratica costituendosi in un partito che
si presentò alle elezioni. Come si chiusero tutti e due gli occhi in seguito (e
si chiudono tutt’ora) nel non applicare integralmente la cosiddetta “Legge
Scelba”. Il famoso ministro della “Celere” intervenne alla Camera, nel giugno
1952, nella discussione sulla legge contro la ricostituzione del partito
fascista. Egli negò qualsiasi legittimità costituzionale alla
repubblica di Salò perché – disse - si trattava di un regime che era di
ribellione alla legalità costituzionale, mai venuta meno in Italia. In
quell’occasione, Scelba sfatò una leggenda metropolitana secondo la quale i
fascisti giustiziati dai partigiani dopo la liberazione sarebbero stati
addirittura 300 mila! La cifra è ben più bassa e non comprende, ovviamente i
morti nella guerra guerreggiata. I morti – disse Scelba (foto a sinistra) nel
suo intervento – accertati con un inchiesta del governo furono 1.732 ma
potrebbero essere di meno, aggiunse il ministro dell’Interno, perché questo
numero comprende anche le persone delle quali non si hanno più notizie e che
probabilmente se la squagliarono temendo per la loro vita.
Se queste cifre, accertate nel ’47 o nel ’48, fossero state divulgate
subito avrebbero contribuito a rasserenare gli animi e a smorzare quel clima di
scontro frontale, da guerra fredda, che ha caratterizzato per anni il clima
politico del nostro paese.
La
colossale balla dei 300.000 morti ha anche un padre: l’on. Guglielmo Giannini.
Fu lui stesso a rivelarlo durante la stessa seduta parlamentare.
Giannini, commediografo, fondatore e direttore del giornale
“L’Uomo qualunque” e dell’omonimo
movimento politico, si era inventato tutto di sana pianta per creare una
corrente d’opinione favorevole al MSI. Le conseguenze di questa balla le
conosciamo, le scontiamo ancora e dovrebbero farci meditare. Ma soprattutto
dovrebbero far meditare un nostro collega che da anni ha bandito una crociata
contro la Resistenza e il dopo Resistenza pubblicando alcuni libri per
infangarla.
Vale la pena, qui, di ricordare un aneddoto. Alcuni decenni fa, quando ero
redattore del GR1 della Rai, facendo delle ricerche nella registroteca del
Giornale Radio, mi imbattei in due interviste di un giovanissimo Lello Bersani
fatte separatamente ad Alcide De Gasperi (foto sopra a sinistra) e a Palmiro
Togliatti (foto sopra a destra), all’uscita del Teatro Argentina di Roma, dopo
la prima di una commedia di Guglielmo Giannini. Il giudizio dei due grandi
leader sulla pièce fu lusinghiero, ma entrambi conclusero il loro intervento
dicendo sostanzialmente che Giannini era geniale come commediografo ed avrebbe
fatto bene ad occuparsi solo di teatro. Sembrava che De Gasperi e Togliatti si
fossero messi d’accordo prima. Che muova anche da lì il compromesso storico?