scritta
dal figlio
Antonio
De Vito, giornalista e scrittore, ripercorre le vicende di suo padre. Giuseppe,
confinato a Ponza
di Mario Talli
Antonio
De Vito: “Il sovversivo col farfallino. Destinazione Ponza” – Edizioni del
Rosone, pp. 192, illustrato, € 14,00
Il CPC non è il KGB, ma gli somigliava molto. Nell'infausto ventennio
mussoliniano il Casellario politico centrale allocato presso il ministero
dell'Interno custodiva i nominativi di tutti coloro che in un modo o in un altro
avversavano il fascismo o che erano sospettati di essergli contrari. Nomi,
cognomi, (talvolta sbagliati com'è il caso in questione), foto segnaletiche di
faccia e di profilo, numero di matricola, attività lavorativa e, ovviamente,
attività sovversiva ed eventuali condanne subite in conseguenza di essa.
Il caso in questione è quello di Giuseppe De
Vito – annotato erroneamente come
De Vita – nato e residente a Torremaggiore di Foggia, di mestiere ebanista,
reduce dalle battaglie sul Piave dove era stato mandato appena compiuti i 18
anni. Lo schedario della polizia politica, ove la foto segnaletica non bastasse,
ne descriveva con puntiglio e qualche tratto di fantasia anche i connotati:
statura, capelli, viso, fronte, sopracciglia, occhi, naso, orecchie, baffi,
barba, mandibola, rughe, bocca, collo, spalle, gambe, mani e piedi, ne definiva
l'andatura, qualificata come “lenta” e perfino l'espressione fisiognomica, che
pure in una situazione che non doveva essere tranquilla e neppure rassicurante,
appariva al meticoloso poliziotto “gaia”.
Le annotazioni si concludevano con la descrizione dell'abbigliamento
abituale, giudicato “distinto”.
A recuperare l'intero dossier nel corso di una ricerca lunga e paziente è
stato il figlio dell’antifascista pugliese, Antonio, avvocato convertito al
giornalismo, residente da molti anni a Torino ma con il cuore tuttora trafitto
dalla sua terra originaria, che ha raccolto l'abbondante e istruttivo materiale
in un libro: “Il sovversivo col farfallino – destinazione Ponza”, delle
Edizioni del Rosone di Foggia, un titolo che, come si vede, dà argutamente
ragione a colui che ai tempi attribuì al proscritto caratteri distintivi. “Un
sovversivo non trasandato”, commenta infatti ironicamente l'autore.
I guai dell'ebanista Giuseppe De Vito (nella foto a fianco ritratto a
Ponza) cominciano quando, ancora molto giovane,
decide di iscriversi al Partito comunista. Il primo impatto con la
giustizia di regime avviene nell'estate del 1924, quando, esattamente il 14
luglio, è arrestato nientemeno che per attentato ai poteri dello Stato. Sarà
scarcerato poco più di un mese dopo perché il fatto imputatogli non costituiva
reato. Un anno dopo sarà arrestato di nuovo per disobbedienza alla legge e per
incitamento all'odio tra le classi sociali e questa volta condannato dal
Tribunale di Foggia a sei mesi di carcere e a cento lire di multa. Insieme a lui
furono condannati Luigi Allegato, amico di Giuseppe Di Vittorio, in precedenza
deputato e presidente della Provincia di Foggia e Sabino Sacco, fratello di quel
Nicola Sacco fulminato sulla sedia elettrica insieme a Bartolomeo Vanzetti alle
ore 0,13 del 23 agosto 1927 nella prigione di Charlestown, Stati Uniti
d'America, per un delitto che non avevano commesso.
Con l'approvazione, nel novembre del '26, delle nuove e più dure leggi
contro gli avversari del regime, le cosiddette “leggi eccezionali”, per De Vito
e altri come lui arriva poi la condanna a cinque anni di confino, destinazione
Ustica.
Il nostro eroe, uscito dal carcere, aveva probabilmente ripreso sia pure
in modo clandestino l'attività di propaganda antifascista. Ma bastava poco per
incappare nella repressione mussoliniana. Antonio De Vito riporta una
testimonianza di Emilio Lussu, evaso da Lipari e rifugiatosi in Francia, dalla
quale si apprende che un venditore ambulante che non si era mai occupato di
politica fu denunciato davanti al Tribunale speciale per “aver tentato di levare
in armi i cittadini del regno”. Che cosa aveva fatto di male costui? ”Vendeva –
racconta Lussu – della tela leggera, la mussolina, a basso prezzo, e la vendita
al ribasso di questo articolo fu considerata una sfida al duce omonimo e un
appello alla rivoluzione”.
Come sempre succede, alla tragedia dei regimi totalitari si accompagna
inevitabilmente il grottesco e la farsa. Ed infatti una persona in quegli anni
bui poteva essere impacchettata e inviata al confino per non aver salutato i
gagliardetti fascisti issati durante un corteo o anche per aver reciso un albero
dedicato ad Arnaldo Mussolini, fratello del dittatore.
Il 25 aprile del 1927 Giuseppe De Vito, che la burocrazia poliziesca si
ostina a chiamare De Vita, arriva a Ustica, come attesta una nota della Regia
Prefettura di Palermo. A Ustica un anno prima era arrivato Antonio Gramsci, poi
Amadeo Bordiga e altri antifascisti in maggioranza comunisti. Dopo altre
controversie giudiziarie, una breve licenza a Torremaggiore per una visita alla
madre inferma, il 31 agosto dell'anno successivo lo spediscono nell'isola di
Ponza, dove nel frattempo era stata aperta una Colonia penale. Vi rimarrà fino
al 5 giugno del 1937, anno XV° dell'Era fascista. Nei documenti
che registrano e accompagnano il suo ritorno a casa
si è costretti ad ammettere che i lunghi anni di confino non lo hanno per
nulla cambiato, più esattamente “che non ha dato prova di ravvedimento serbando
le proprie idee”. Per cui “sul di lui conto sarà esercitata attiva vigilanza”.
Vigilanza che continuò negli anni vissuti a Torino, città nella quale
l'ex confinato si era trasferito
qualche mese dopo l'abbandono di Ponza.
I dossier polizieschi – talvolta per oggettiva necessità – hanno la
memoria lunga, più lunga ancora la hanno quelli della polizia politica. Per cui
non sorprende che essi registrino tra il maggio del '40 e il luglio del '43,
quattro brevi soggiorni nelle carceri del capoluogo piemontese come misure di
sicurezza in occasione di eventi particolari quali la dichiarazione di guerra
del 10 giugno 1940 o le visite in città di importanti gerarchi fascisti o
nazisti.
Potrebbe invece essere suscettibile di sorpresa, se ormai non ne
sapessimo abbastanza su questo genere di cose, apprendere che cosa conteneva
un'informativa del SIFAR, il Servizio di informazioni delle Forze Armate del 19
maggio 1962, firmata dal capo ufficio colonnello Giovanni Allavena nei confronti
di padre e figlio, Giuseppe e Antonio De Vito. Quest'ultimo aveva partecipato ad
un concorso bandito dalla Confindustria tra giovani laureati e come era avvenuto
per tutti coloro che, come lui,
sembravano i possibili vincitori ci si era rivolti addirittura al SIFAR
per sapere qualcosa di più sul loro conto. Che cosa diceva il documento
(portato alla luce dal giornalista, storico e saggista Ruggero Zangrandi durante
una sua inchiesta per il giornale Paese Sera sul Servizio segreto
militare) su entrambi i De Vito?
Del figlio ci si limitava a dire che era di orientamento favorevole al Pci,
partito per il quale aveva anche svolto propaganda durante una campagna
elettorale, ma che nonostante questo era “di buona condotta e incensurato”. Del
padre invece si ripercorreva in sintesi l'itinerario di confinato più volte
arrestato per antifascismo, la sua iscrizione al Pci fin
dal 1921 e il suo essere tuttora (nel
1962!!!) classificato “pregiudicato per reati politici”.
Non solo:
l'informativa avvertiva che Giuseppe De
Vito, nonostante fosse ormai in età avanzata, risultava ancora iscritto al CPC
(Casellario politico centrale) per “normale vigilanza”.
Come riteniamo si possa comprendere da quanto abbiamo visto finora, uno
dei principali motivi di interesse
del libro è che esso ci conduce per mano dentro le pieghe più riposte degli
strumenti repressivi in uso nel ventennio fascista e, a conferma che il processo
storico non interrompe mai del
tutto il rapporto tra il passato e il presente, ci offre la dimostrazione di
quanto sia difficoltoso togliersi definitivamente di dosso le scorie lasciate da
esperienze mai deprecate a sufficienza.
Resta da aggiungere che il racconto è arricchito
dalla riproduzione di un'ampia messe di documenti originali provenienti dal
casellario giudiziario, dagli archivi dei servizi di informazione, del
ministero degli Interni, delle prefetture, delle questure e dei comandi dei
carabinieri, nonché da tenere e
suggestive foto d'epoca risalenti a quasi un secolo fa, efficaci testimonianze
in chiaroscuro di un mondo spesso di povertà se non addirittura di miseria,
vissute però quasi sempre con esemplare dignità.
Andrea
Candela: “Dal sogno degli alchimisti agli incubi di Frankenstein. La scienza e
il suo immaginario nei mass media” Editore Franco Angeli. Pag. 268, € 28.
Prefazione di Giovanni Caprara
presidente dell’UGIS (Unione
Giornalisti Italiani Scientifici),
Il
libro traccia un’ approfondita panoramica storica sulle diverse forme di
narrazione (storytelling) della scienza e della tecnologia nei mass
media. Si concentra prevalentemente sull’informazione giornalistica. Ne
ripercorre la storia e cerca di cogliere le motivazioni storiche e culturali che
hanno indotto prima la carta stampata e poi i mezzi di comunicazione di massa ad
avvalersi di un linguaggio sensazionalistico nel raccontare le avventure della
scienza in pubblico. La rappresentazione popolare della scienza rievoca spesso
un insieme di figure appartenenti all’immaginario collettivo: maghi e
alchimisti, mostri e apprendisti stregoni, gesta eroiche e catastrofi, elisir e
veleni. Considerando diversi casi storici, dalle scienze biologiche di fine
Settecento e inizio Ottocento fino agli odierni dibattiti su biotecnologie,
Aids, nucleare, cambiamenti climatici ecc., il volume esamina quegli snodi
salienti che hanno permesso la nascita di uno specifico immaginario scientifico,
all’origine del quale si ritrovano narrazioni mitologiche, rumors e
credenze popolari riguardanti maghi, alchimisti e mostruosità. L’informazione
mediatica, talora inconsapevolmente, attinge alle forme narrative del mito con
l’intenzione di attribuire un significato, non sempre chiaro ed evidente, al
ruolo spesso ambiguo e sempre più invasivo delle scoperte scientifiche.
Elio
Cadelo, Luciano Pellicani: "Contro la Modernità – le radici della cultura
antiscientifica in
Italia” , Editore Rubettino,
pag180, € 12
Sono decenni che in Italia si sta rafforzando un
blocco sociale che, prescindendo dalla collocazione politica e dall’estrazione
culturale, vede nella scienza e nella modernizzazione del paese una minaccia. Il
risultato di questa presa di posizione è la caduta della ricerca scientifica e
dell’innovazione tecnologica che ci sta minando le fondamenta economiche e
culturali.
“Contro
la Modernità – le redici della cultura antiscientifica in Italia”
scritto da Elio Cadelo e Luciano Pellicani è un libro di denuncia che
analizza il basso livello culturale degli italiani nelle discipline scientifiche
e più in generale nei scarsi livelli di scolarizzazione. Il panorama che emerge
è desolate: il nostro paese è ultimo (o quasi ultimo) nel mondo industrializzato
in tutti gli indicatori culturali e questo, in pochi anni, potrebbe portare
l’Italia fuori dai più importanti contesti internazionali.
Utilizzando gli indicatori ufficiali e i dati a
disposizione delle diverse istituzioni (ISTAT, Ministeri, OCSE, Eurobarometro, e
così via) gli Autori ricostruiscono le cause e la lunga storia della cultura
anti-scientifica in Italia che ha radici lontane. Inoltre vengono prese in
considerazione le conseguenze che questa situazione sta provocando nella società
civile, nella politica e nello sviluppo economico del paese.
L’Italia - che ha dato i natali a Galileo
Galilei, Alessandro Volta, Enrico Fermi, Antonio Meucci, Guglielmo Marconi e
così via - è oggi non solo il paese dell’anti-scienza ma un paese in lotta
contro la modernità e che ha perso una visione del suo futuro e del ruolo che
dovrebbe svolgere nel mondo.
Gli Autori ripercorrono la storia del pensiero
“anti-scientifico” dal ‘900 fino ai giorni nostri ed alla fine traggono le
somme: nella società contemporanea il benessere di un paese passa attraverso la
ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e, più in generale, anche
attraverso l’ammodernamento delle infrastrutture e dei servizi. In Italia tutti
i progetti innovativi vengono sistematicamente contestati: dal Ponte sullo
stretto di Messina, ai rigassificatori, ai termovalorizzatori,
all’ammodernamento delle ferrovie.
E anche la ricerca scientifica ha subìto la stessa sorte: l’Italia è l’unico
paese al mondo che vieta la ricerca e la sperimentazione nel settore delle
biotecnologie e degli Ogm, ha smantellato la ricerca sul nucleare e,
complessivamente, ha tagliato i fondi per la ricerca. Ma l’Italia detiene anche
un altro record: quello dei comitati dei “NO”: i NO TAV, i NO GAS, i NO ai
TERMOVALORIZZATORI, i NO al NUCLEARE, i NO ai PARCHEGGI, i NO ai CENTRI
COMMERCIALI, i NO alle AUTOSTRADE, e così via. In altre parole, si sta
sviluppando nell’opinione pubblica una avversione alla modernità che sta
portando la società italiana indietro di decenni.
La cultura
anti-moderna ha svariate
sfaccettature e spesso viene associata al mito della natura buona e benefica che
viene barbaramente violentata dall’avanzamento della globalizzazione, della
tecnologia, dell’inquinamento e delle aride leggi dell’economia e del libero
mercato. Così la rivolta contro la modernità non è altro che il desiderio
romantico di vivere in una comunità armoniosa e compatta, in perfetto accordo
con la natura.
Questo contrasto tra scienza e libero mercato da
una parte e natura, ritorno ad una vita essenziale e contadina dall’altra si
acuisce nei dibattiti sulla New Economy, sui mercati globali, sul nuovo panorama
lavorativo. Gli Autori in questo saggio spiegano perché negli italiani è
presente anche una forte indignazione permanete contro quella che viene ritenuta
“la permanete” rivoluzione capitalistica che avanzerebbe come una valanga
culturale distruggendo tutto: istituzioni, interessi, valori, sentimenti. Questo
modo di sentire ha radici profonde che affondano nel Fascismo ed nel
Nazifascismo che devono parte del loro successo proprio alla lotta contro la
Modernità, contro il capitalismo e il libero mercato.
Gli
Autori:
Elio
Cadelo , giornalista,
saggista, inviato speciale del Gr Rai per la scienza e l’ambiente è autore
e curatore di numerose pubblicazioni tra le quali: “Idea
di Natura” (Marsilio); “Quando i
Romani Andavano in America –Conoscenze scientifiche e Scoperte geografiche degli
antichi navigatori -” (Palombi);
Perché gli OGM (Palombi), Premio ENEA 1999 per la Divulgazione Scientifica,
è stato membro del Gruppo di Lavoro sull’Informazione e Comunicazione in
Biotecnologia del Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie.
Luciano
Pellicani, già direttore di
“Mondoperaio”, è fra i sociologi italiani più conosciuti all’estero grazie alla
pubblicazione dei suoi saggi nelle principali lingue europee. Della sua vasta
produzione scientifica Rubettino ha pubblicato
"Dalla
società chiusa alla società aperta" , "Le
radici pagane dell'Europa", "Dalla
Città sacra alla Città secolare", "La
società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario", "Il
potere, la libertà e l'eguaglianza ",
"Anatomia
dell'anticapitalismo".