Valdo Spini : “La
buona politica. Da Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un
socialista”
Di Mario Talli
Per uscire dal
pantano in cui annaspa oggi e da parecchi anni la politica italiana non c'è che
un rimedio: la politica. Ogni altra strada non farebbe che peggiorare le cose.
Lo ha voluto affermare recentemente
anche
il Papa sconsigliando, proprio lui, la pretesa di soluzioni miracolistiche.
Della stessa idea è Valdo Spini e nel suo caso non potrebbe essere che così,
considerato che è nato e cresciuto a pane e politica.
Spini ha presieduto
il comitato che ha celebrato in Italia e nel mondo il quinto centenario della
stesura del Principe di Niccolò Machiavelli. E da colui che è considerato il
fondatore della scienza politica moderna è partito per raccontare il suo lungo
itinerario politico personale e contestualmente quello italiano, dal momento che
i due percorsi sono strettamente connessi fra di loro. “La buona politica. Da
Machiavelli alla Terza Repubblica. Riflessioni di un socialista” è il titolo del
libro edito da Marsilio, prefato e introdotto da Carlo Azeglio Ciampi e Furio
Colombo.
Passione e ragione,
evidenzia Spini, sono i capisaldi del grande pensatore vissuto a Firenze a
cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Ossia il medesimo binomio –
osserviamo a nostra volta - che ha
costantemente connotato l'agire politico dell'ex esponente socialista, ex vice
segretario del Psi, più volte ministro e sottosegretario, promotore, tra le
molte iniziative parlamentari e di governo che portano il suo nome, delle leggi
che aprirono la strada all'ingresso delle donne nelle forze armate e che
portarono all'abolizione della leva, nonché fondatore di circoli e di riviste
politico-culturali. Lo possiamo tranquillamente testimoniare noi, che abbiamo
avuto l'occasione di seguirne, da vicino o da lontano, fin dall'esordio a sedici
anni con il movimento giovanile Nuova Resistenza, il cammino lungo i sentieri
accidentati della politica.
La fiammella della
passione politica lo aveva avvolto addirittura ancora prima, quando di anni ne
aveva soltanto dieci e il padre, lo storico Giorgio Spini, lo
aveva portato con sé al Consiglio comunale di
Firenze dove si commemorava Piero Calamandrei, morto da poco. Da allora sono
trascorsi quasi sessanta anni e quel focherello è tuttora acceso, a
dimostrazione che ci sono uomini che nascono vecchi e anziani che rimangono
giovani tutta la vita.
Scorrere nelle agili
pagine del libro tutte le tappe del percorso politico dell'autore è come
osservare attraverso una lente di ingrandimento la assai movimentata vicenda
politica italiana dall'anno '62, anno di iscrizione di Valdo Spini (foto a
destra) alla
Federazione giovanile socialista, ad oggi. Per quanto riguarda l'aspetto più
intimamente personale, ci pare che esso sia ben rappresentato da quanto scrive
nell'introduzione Furio Colombo: “Questa è la testimonianza di una lunga e
nobile storia non violenta di difesa dei deboli, di continua ricerca di
equilibrio e di intesa fra gruppi diversi, in nome del principio che sia la
rivoluzione che l'immobilismo dei privilegi costano troppo e finiscono male”.
Il salto del nostro
protagonista dall'organizzazione giovanile socialista al partito vero e proprio
è abbastanza svelto. Da subito egli si riconosce nella sinistra di Riccardo
Lombardi e di Tristano Codignola, in gran parte depositaria e in qualche modo
continuatrice dell'esperienza azionista che fu anche di suo padre e di
Calamandrei. E a quella ispirazione originaria non verrà mai meno, pur nelle
alterne e non di rado convulse vicende interne del partito segnate, di pari
passo con le mutazioni della situazione politica nazionale e di quella
internazionale (Valdo Spini avrà incarichi di rilievo anche nell'ambito dei
rapporti con il Socialismo europeo e non solo), dagli sviluppi della politica
autonomista di Nenni nei confronti del Pci, dalla scissione dei
socialdemocratici di Saragat e ai successivi tentativi (tutti quanti falliti) di
rimettersi insieme, alla nascita dei primi governi di centro-sinistra,
all'insorgere quasi improvviso, almeno negli effetti deflagranti, dell'astro di
Craxi. Sono tutte quante pagine tormentate, di successi e di sconfitte per il
Partito socialista, di profondi sconvolgimenti interni, fino al triste e
desolante epilogo finale: la scomparsa del partito che per primo in Italia aveva
innalzato la bandiera rossa simbolo del riscatto del lavoro e dei lavoratori.
Costantemente fedele
al binomio machiavelliano di passione e ragione, in questo caso magari
insistendo di più sul secondo che sul primo dei due parametri, Valdo Spini ebbe
un rapporto alterno con Craxi, che definiremmo di reciproca ma guardinga
attenzione. Fatto sta che ci fu un momento in cui il Craxi uscito trionfalmente
vincitore nell'81 al congresso nazionale di Palermo, chiamò inaspettatamente il
lombardiano Spini, esponente di rilievo della corrente soccombente,
alla vicesegreteria, al pari di un altro giovane poco più che trentenne,
Claudio Martelli.
Negli ultimi anni di
vita del Psi, Craxi ne aveva indubbiamente accresciuto il peso politico,
tradottosi tra l'altro nella sua personale ripetuta ascesa alla guida del
governo, ma in pari tempo la
eccessiva sottolineatura - che in certi momenti assunse aspetti addirittura
trionfalistici sotto il profilo iconografico - del ruolo del leader a scapito
degli equilibri interni ne avevano provocato, certamente insieme ad altri
fattori non tutti ascrivibili a quel partito, una profonda e corrosiva
mutazione della sua fisionomia e, peggio ancora, della sua anima.
Valdo Spini operò,
insieme a pochi altri, diversi
disperati tentativi per mantenere in vita il Psi, ma i numerosi episodi di
corruzione ne avevano ormai deturpato l'immagine e non ci riuscì. Non dovette
faticare neppure un po', invece, per uscire indenne, la faccia e le mani pulite,
da quel disastro. Durante tutto il suo cammino politico e partitico,
aveva mantenuto fede ai richiami originari e al binomio più volte ricordato del
Machiavelli. Probabilmente aiutato anche dall'appartenenza alla religione
valdese, che a differenza di quella cattolica (almeno fino ad ora, con papa
Francesco, forse, le cose cambieranno anche lì) pretende da chi la pratica ben
altra coerenza tra propositi e opere.
La penosa fine del
Psi non interruppe in ogni modo
l'impegno politico di Valdo Spini, proteso da quel momento in poi (come
d'altronde aveva fatto anche prima, ma ora con una convinzione ancora maggiore)
alla costruzione di un più grande e rappresentativo agglomerato politico che
avesse come riferimento il Partito del socialismo europeo. Significativi in
questa prospettiva gli interventi, in un primo tempo dall'esterno ma
successivamente e per un certo periodo anche dall'interno, nel lungo e lacerante
dibattito che accompagnò il
mutamento del nome del Pci, dopo il crollo del sistema sovietico. Illuminante ci
pare, a questo proposito, un'intervista del novembre dell'89, lo stesso mese in
cui fu demolito il muro di Berlino,
a Paola Cordié di Paese Sera nella
quale, pur dando atto al Pci di essere stato tra tutti i partiti comunisti
dell'Occidente all' “avanguardia” nel processo di “revisione” della sua
politica, sollecitava i dirigenti di quel partito a fare presto e auspicava che
il cambiamento del nome non avvenisse “in funzione di una rinnovata
competitività col Psi”, bensì “in funzione di un altro traguardo, più
ambizioso”, ossia una sorta di “bilancio della storia di tutte le correnti
politiche che si sono distaccate dall'alveo originario del Partito socialista.”
L'obiettivo finale
di questa operazione era abbastanza trasparente. Non sapremmo dire se in quel
dato momento avrebbe potuto avere possibilità di successo. Il vecchio Partito
comunista, costretto a ripensare se stesso e la sua storia, era in evidenti
difficoltà. Ma anche il Psi in versione craxiana non godeva di ottima salute. A
parte le prime avvisaglie di ciò che poi sarebbe passato alla cronaca (e alla
storia) come Tangentopoli, la fine dell'Unione Sovietica non aveva affatto
avvantaggiato i socialisti,
paradossalmente ma non tanto aveva ringalluzzito la Dc.
E qui ci pare che
Spini abbia davvero ragione quando addebita a Craxi e alla dirigenza socialista
allora a lui più vicina di non aver saputo “comprendere appieno” la portata di
quanto accadde in quell'anno
cruciale, il 1989 appunto, e di non aver approntato “verso il Pds” – la nuova
denominazione assunta dall'ex Pci -
“ e quanto stava accadendo in quell'area se non la profferta di cooptazione
nel sistema vigente.” In pratica, una resa senza condizioni.
Prima che il vecchio
Psi cessasse di esistere, Valdo Spini fu ad un passo dal succedere a Craxi alla
segreteria del partito. Nel libro egli spiega con dovizia di particolari perché
ciò non accadde. Quel che invece
avvenne, poco tempo dopo, fu lo scioglimento del partito. Chissà, viene
spontaneo chiedersi, se il Psi avrebbe avuto la stessa sorte se la segreteria
fosse stata davvero affidata a Valdo Spini. Ma poiché costui è il primo a sapere
(lo dice anche nel libro) che la politica non si fa con i “se” e i “ma”, è più
utile registrare un suo ultimo tentativo per cercare di salvare il salvabile,
ovverosia la costituzione, insieme ad altri parlamentari, di una Federazione
laburista. L'obiettivo era sempre il solito e Spini lo indica con chiarezza: lui
e i suoi compagni di avventura
puntavano “alla formazione di un grande partito della sinistra che si collocasse
all'interno del Partito del socialismo europeo”, sia per 'europeizzare' il
quadro politico italiano, “sia per non disperdere il radicamento territoriale e
sociale dell'antico Pci, ma trasformarlo in un moderno partito socialdemocratico
o laburista.”
L'iniziativa
contribuì alla trasformazione nominale del Pds in Ds., ma non andò oltre. Lo
sbocco, trascorso ancora un po' di tempo, fu l'attuale PD, frutto dell'alleanza
tra ex comunisti, ex democristiani e cattolici popolari e qualche altra piccola
frangia dal colore talvolta cangiante e comunque non ben definito.
Scrive Carlo Azeglio
Ciampi nella affettuosa prefazione (l'ex Presidente della Repubblica ha militato
nel Partito d'Azione insieme al padre di Valdo ed ha avuto quest'ultimo come
ministro nel suo governo del 1994): “Oggi, il nostro confuso presente, ha tra le
sue parole d'ordine 'rottamare', 'rinnovare'. Più che una diade inscindibile
questa a me pare l'ennesima manifestazione di un conformismo sciatto e plebeo,
pronto a militare dietro le insegne di uno slogan invece che dietro a quelle di
un ideale.”
Per quel che vale,
in queste amare parole si riconosce perfettamente anche chi scrive . E se la
conclusione appare poco incoraggiante,
per non disperare del tutto non resta che seguire con la dovuta
attenzione il Valdo Spini che in vario modo, compresi i banchi del Consiglio
comunale fiorentino, continua imperterrito la sua lunga battaglia per una buona
politica figlia e insieme promotrice di un'Italia migliore.
Il
sacrificio di un bambino
incrementò la donazione di organi
di Luisa Monini
Reginal
Green: “The Nicholas Effect – Il dono di Nicholas”
Chi non ricorda la storia di Nicholas Green il
bambino americano di 7 anni che, nel settembre del 1994,
in
vacanza con i genitori nel nostro paese, vi trovò una morte assurda sull'
autostrada Salerno-Reggio Calabria? Una morte non dovuta alla guida in stato d'
ebrezza del sig. Green, né alla eccessiva velocità o all' asfalto scivoloso o a
un colpo di sonno. Niente di tutto ciò. Nicholas perse la vita in un attentato
perché l'automobile su cui viaggiava con mamma e papà era stata scambiata da
alcuni rapinatori per quella di un gioielliere e il tentativo di furto si era
trasformato drammaticamente in omicidio. Ricoverato al centro neurochirurgico
del Policlinico di Messina, Nicholas morì qualche giorno dopo. Alla sua morte, i
genitori autorizzarono l'espianto e la donazione degli organi che salvarono la
vita a quattro adolescenti e a un adulto e diedero la vista ad altre due
persone. L'evento fece molto scalpore e per varie ragioni; la prima fu per la
tragica fatalità in cui avvenne l'assassinio di un innocente, la seconda fu per
la prontezza con la quale la mamma e il papà di Nicholas decisero di trasformare
un' esperienza così brutalmente negativa e devastante in un atto d' amore
rivolto ad altri bambini italiani che avrebbero potuto tornare a vivere grazie a
Nicholas, la terza fu per l' immediato ritorno che questo gesto così generoso,
dignitoso e coraggioso ebbe sull' opinione pubblica riguardo la donazione d'
organi e tessuti, pratica che negli anni '90 non era così comune in Italia. La
storia di Nicholas di fatto contribuì a far aumentare gli episodi di donazione
d'organi in tutto il Paese, come lo stesso sig. Reginal Green ama ricordare
dalle pagine web della "The Nicholas Green Foundation": l'Italia era il Paese
con la più bassa percentuale di donatori nell'Europa occidentale prima che
nostro figlio venisse ucciso. In seguito, le donazione si sono più che
triplicate, raggiungendo un livello più elevato che qualsiasi altro Paese. Un
aumento del genere deve avere cause molteplici e sono consapevole che ci sia
stato un esercito di persone che lavorano per la stesso obiettivo, compresi i
volontari dell'Aido (Associazione Italiana per la Donazione di Organi, Tessuti e
Cellule) e gli operatori sanitari di tutta Italia. Ma sembra chiaro che la
storia di un piccolo ragazzo ha cambiato il pensiero di un'intera nazione. Credo
che nessun altro Paese al mondo avrebbe dimostrato una tale generosa risposta.
Si è tornato a parlare recentemente della storia
di Nicholas per via di una lettera ricevuta dal sig. Green e da lui stesso
segnalato alla rivista America Oggi. E' Andrea De Vita, un giovane papà
napoletano che
scrive, raccontando del suo bambino, nato con una grave malformazione cardiaca,
al quale ha imposto il nome di Nicholas: " Nelle nostre preghiere chiediamo al
vostro Nicholas di stare vicino al nostro bambino e di aiutarlo ad uscire quanto
prima da quella stanza di ospedale. In realtà quando avevo fatto il proposito di
chiamare Nicolas mio figlio, avevo deciso che vi avrei scritto per farvelo
sapere e per dimostrarvi, per quanto poco poteva valere, riconoscenza e
gratitudine di fronte al vostro gesto di immenso amore. Con questa lettera,
mantengo fede a quel proposito di tanto tempo fa, ma chiedo anche una preghiera
da parte vostra a Nicholas di proteggere ed aiutare il suo ‘cugino' napoletano
Nicolas. Immensamente grati ed orgogliosi di essere genitori di un altro piccolo
Nicolas".
Grazie ad Andrea De Vita per questa scelta che
accomuna e sublima due grandi sofferenze in nome dell' amore per il prossimo e
per la vita vissuta come un prezioso dono da non " disperdere " inutilmente.
Val qui la pena ricordare che, grazie alla
donazione d'organi, in tutto il mondo negli ultimi 50 anni sono stati eseguiti
circa 550.000 trapianti di rene, 120.000 trapianti di fegato, 70.000 di cuore e
decine di migliaia fra trapianti di polmone, di pancreas e di rene e pancreas
insieme. Organi donati a persone che altrimenti sarebbero morte o sopravvissute
malamente in dialisi (cui sottoporsi 4 ore al giorno x 3 giorni alla settimana x
4 settimane al mese x 12 mesi all'anno!).
Nel nostro Paese, le persone in lista d'attesa
per ricevere un trapianto d'organo sono circa 9.000. Di questi, ne arrivano al
trapianto poco meno di 3.000. Gli altri rimangono in attesa e così, aspettando,
circa 3 persone al giorno muoiono e gli altri continuano a sperare nell' organo
miracoloso per tornare a vivere di nuovo. Perché è proprio così: chi ha la
fortuna o la buona sorte di ricevere l'organo al momento giusto, torna a vivere.
I trapiantati lavorano, viaggiano, fanno sport. I soggetti in età fertile
possono avere figli, le giovani donne trapiantate possono portare a termine una
gravidanza. E' la vita che continua e, con le attuali terapie antirigetto e
quelle miranti ad indurre tolleranza nell'organismo ricevente, ci sono buone
speranze che un trapianto possa durare per sempre.
"Può apparire ambizioso" scrive Reg Green sul
libro "Il Dono di Nicholas ( titolo originario dell' opera The Nicholas Effect
)" ma mi viene in mente la scena del film di Jimmy Stewart, La Vita è una cosa
meravigliosa, in cui, dopo aver tentato il suicidio, a George Bailey viene
mostrato come sarebbe stata la vita se lui non fosse mai nato: la sua città
natale corrotta e nella morsa della miseria, persone decedute che invece
avrebbero potuto vivere, sua moglie non sposata. A volte penso ai trapianti di
organo in questi termini-non solo vite salvate, ma vite che altrimenti non ci
sarebbero mai state, matrimoni che non avrebbero avuto luogo, ogni sorta di
conseguenze che si ripercuoterebbero per le generazioni a venire. Tutto da una
semplice decisione." Ecco dunque che la cultura della donazione diventa
fondamentale in un Paese civile.