Dallo “stròlago” di Brozzi all’eptòdo
Cronachetta semiseria
dei miei incontri
con Margherita Hack
di Giuseppe Prunai
Margherita Hack consegna al direttore de "Il Galileo", Giuseppe Prunai il Premio giornalistico "Voltolino" alla carriera
Quando scompare una persona che si conosce è inevitabile riandare con la memoria
ai momenti e agli episodi, anche tra i più insignificanti, che ci hanno legato a
questa.
Così, quando ho appreso della morte di Margherita ho rivisto come in un film un
incontro che ebbi con lei a Trieste. Mi ero arrampicato su per il quartiere di
Roiano, una salita sulla quale la mia auto, un po’ vecchiotta, sbuffava come una
vaporiera mentre lei la faceva in bicicletta con le borse della spesa infilate
nel manubrio.
In piedi sul ballatoio della villetta
dove abitava, cercavamo di concludere un discorso avviato poco prima. Ad un
tratto lei esplose: “Oggi, le stelle si misurano, non si guardano più con il
cannocchiale” e si inchinò alzando la faccia al cielo e mimando con la mano
destra il gesto di chi scruta il firmamento con uno strumento ottico.
E da toscano, la incalzai: come faceva lo “strolago di Brozzi”
“ Già - ribatté lei – quello che riconosceva i rovi al tatto e la cacca al
puzzo”.
In questa battuta tranchant c’era tutta la sua toscanità, che porta a non
credere a nulla che non sia scientificamente dimostrato. Un comportamento
galileiano, insomma.
Per i lettori non
toscani, bisogna dire che “lo strolago di Brozzi, cioè l’astrologo di Brozzi,
era un tal Rutilio Benincasa,
cosentino, vissuto tra il 1555 e il 1626. Stando al detto popolare, citato dalla
Hack, il Benincasa non doveva godere di una grande fama ma, a suo favore, c’è
anche un altro detto, ben più autorevole: “Nemo propheta in patria”.
E a Brozzi, a pochi chilometri da
Firenze, dove viveva, sembra non fosse molto simpatico. Un suo sedicente nipote,
Sesto Cajo Baccelli, vissuto attorno al 1600, ne raccolse l’eredità e divenne
autore di un lunario, “Il Sesto Cajo Baccelli”, che si pubblica ancora, ed ha un
suo pubblico affezionato. E’ un almanacco zeppo
di notizie su fiere e mercati di tutta la Toscana, di effemeridi (sorgere
e tramontare del sole e della luna, fasi lunari), di suggerimenti per gli
agricoltori etc.
“Ormai, i tempi
del Sesto Cajo son passati. Ora è il tempo delle certezze. Se ne troviamo”
aggiunse.
Ero andato da lei
per la firma di certi documenti relativi alla sua candidatura a
non ricordo più quali elezioni. Mi aveva ricevuto, con il marito Aldo, di
due anni maggiore di lei, al pian terreno della villetta dove viveva. Un grande
salone, dove lo spazio abitabile era ridotto al minimo indispensabile perché
tutto occupato da un discreto numero di scaffai metallici a soffitto, di quelli
che si compattano facendoli scorrere su una rotaia. 24mila volumi sono tanti da
tenere in casa e lei era ricorsa a questo escamotage. Mi colpirono anche tanti
fiocchi di carta che teneva appesi alle pareti o agli scaffali: erano quelli che
usano i fiorai per confezionare i mazzi di fiori. Ne faceva collezione e ne
aveva a dir poco un centinaio e passa.
E poi scherzammo
su una sorta di discussione filologica, avuta almeno una trentina di anni prima,
a Firenze.
E qui è
necessaria una parentesi. Conoscevo suo suocero perché aveva il mio stesso
hobby: era un radioamatore. Aveva delle apparecchiature di primordine, ben
gestite e ben mantenute. Ma con le antenne non ci sapeva proprio fare. Lui
abitava al Poggio Imperiale, io un due o trecento metri più sotto, in Viale
Petrarca. Quando accendevo il ricevitore ad onde corte e sentivo le sue
trasmissioni piene di frequenze spurie, quei segnali che generano interferenza
nella radio e nella tv e son dovute al cattivo funzionamento dell’antenna,
correvo a casa sua ad eliminare il
difetto. Una volta ci trovai Margherita, che ancora non conoscevo anche se il
suo nome era già noto. Parlando,
nominai alcuni tipi di valvole elettroniche pronunciandone il nome, come tutti i
radiotecnici, con l’accento sulla prima sillaba: trìodo, tètrodo, pèntodo,
èptodo. Le mi corresse perché, come tutti i fisici, diceva triòdo, tetròdo,
pentòdo, eptòdo. La disputa si esaurì una ventina d’anni dopo quando i
semiconduttori mandarono definitamente in pensione i tubi elettronici.
Nelle discussioni
si accalorava fino all’imprecazione che a stento tratteneva. Quando che molte
persone avevano visto una scia luminosa percorrere il cielo sull’Adriatico da
Trieste fino a Bari, la intervistai in diretta per il GR1 delle ore 7 del
mattino. La incalzavo parlando di dischi volanti, di alieni, di omini verdi e
lei sbuffava sempre di più fino ad esplodere: il tecnico fu a tempo a chiudere
il dosatore non appena sentì la labiale. Era una “p”.
Anche l’ultimo
film che rivedo mi riguarda da vicino. Alcuni anni fa, le toccò. In sorte di
consegnarmi il Premio giornalistico “Voltolino” alla carriera. Eravamo nel
grande salone Biancamano del Museo della scienza di Milano. Era novembre e
faceva un freddo cane perché il salone non è riscaldato. Cecchi Paone che
conduceva la manifestazione aveva la pelle d’oca, ma non rinunciò alla prassi di
intervistare i premiati. A me, con la Hack a fianco, chiese: “Ma scrivi ancora?”
Ed io: “certamente, tolgo qualche sassolino dalle scarpe”.
Vidi lo sguardo
di Margherita che si abbassò sui mie piedi e sbottò: “Poerannoi,
poveri noi, con quelle fette!”