A 70 anni dalla caduta di Mussolini
Il 25 luglio
nel ricordo di Papà Cervi
Una pastasciutta burro e parmigiano per celebrare la fine del fascismo
La pastasciutta antifascista in una sezione ANPI di Milano, quella del quartiere della Barona
Il 25 luglio scorso cadeva il 70° anniversario di quel 25 luglio 1943 che segnò
la fine del regime fascista nel nostro Paese. Dopo il voto di sfiducia a
Mussolini, da parte del Gran consiglio, re Vittorio Emanuele III, a norma del
vigente Statuto Albertino, revocò l’incarico di presidente del consiglio a
Benito Mussolini. Il resto è noto: il Duce fu prelevato dai Carabinieri che, su
un’autoambulanza, per dare meno nell’occhio, lo fecero uscire da Villa Savoia e,
successivamente, lo portarono al confino.
Anche se molto in ritardo, rispetto ai gravi problemi inflitti al
paese dalla guerra, fu un atto
più che legittimo, da parte del re e
non un golpe, come ha detto nel suo servizio rievocativo un collega del
TG1. Speriamo che il suo giudizio storico-politico sia dettato solo da ignoranza
e non da quel clima di revisionismo sul fascismo e la Resistenza ormai diffuso
in Italia per effetto degli odiosi libri di Giampaolo Pansa e di un diffuso
atteggiamento di molti democristiani e dei cosiddetti “benpensanti” per i quali
la Resistenza è stato un atto inutile, che ha aggravato la situazione del paese,
ha provocato reazioni – che loro giustificano fino a considerare
legittime – da parte dei nazifascisti. Secondo il loro ragionare, la Resistenza
era inutile, tanto a liberare l’Italia ci avrebbero pensato gli alleati. Quel
revisionismo che, alcune settimane fa, ha fatto dire a Pippo Baudo che la
responsabilità dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (335 civili uccisi a sangue
freddo dalle SS comandate da Priebke) fu tutta dei partigiani che misero a segno
l’attentato di Via Rasella, perché non si autodenunziarono dinanzi al comando
tedesco. Come se l’attentato in questione fosse stato un atto di terrorismo o di
banditismo e non di guerra. Si è mai visto il commando di un esercito che, dopo
aver attirato il nemico in un agguato, si autodenunzia?
Ogni anno, il 25 luglio viene rievocato dalle sezioni dell’ANPI (Associazione
nazionale partigiani italiani) con la cosiddetta pastasciutta antifascista in
ricordo della pastasciutta offerta da Papà Cervi agli abitanti di Gattatico
(Reggio Emilia). Eccone la storia in questo racconto tratto dal sito dell’ANPI:
I Cervi erano arrivati al podere di Praticello di Gattatico alla ricerca di un
terreno pieno di gobbe e di buche da livellare per renderlo coltivabile,
attraverso le conoscenze acquisite grazie alla “Riforma sociale” di Luigi
Einaudi ed alle tante ore trascorse sui libri, nelle pause del lavoro, per
imparare le moderne tecniche dell’agricoltura. Avevano le mucche, allevavano
piccioni e le api che producevano un finissimo miele. Avevano comperato il primo
trattore della zona ed inoltre avevano piantato per la prima volta in Emilia,
l’uva americana. Tutto questo suscitò molte gelosie nel paese, ma soprattutto
l’attenzione delle autorità fasciste.
Altre tavolate della pastasciutta antifascista all'ANPI Barona di Milano; a destra, il partigiano Pierfrancesco Vitale, della 113a Brigata Garibaldi
I Cervi erano sempre stati antifascisti, così come il padre Alcide e la madre
Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica; ma fu soprattutto Aldo ad
infondere a tutta la famiglia le prime nozioni politiche e quindi un
naturalissimo e convinto antifascismo. Con il trascorrere del tempo, divennero
sempre più stretti i contatti con il movimento antifascista, così che, già
dall’inizio della guerra, la loro casa divenne un rifugio per i prigionieri
alleati fuggiti dai campi di prigionia. Era tra loro il russo Anatolij Tarasov,
successivamente fidato compagno dei sette fratelli ed attivissimo partigiano
nella Resistenza. Sfiduciato il Duce dai suoi stessi gerarchi, cadde il fascismo
il 25 luglio 1943 e la famiglia Cervi organizzò una grande festa, offrendo la
famosa pastasciuttata a tutta la popolazione sull’aia della casa. Nelle pentole
vennero cotti dieci quintali di pasta e ai Campi rossi giunsero a mangiare i
vicini, i parenti, gli amici, i paesani. La popolarità dei Cervi aveva ormai
superato i confini di Gattatico e con l’arrivo dei nazisti in Emilia, la loro
cantina ed il loro fienile divennero depositi per le armi dei partigiani che
andavano in montagna. Anche loro, seppur per un brevissimo periodo, provarono la
via dei monti, dove ebbero contatti con il parroco di Tapignola Don Pasquino
Borghi, ma capirono ben presto che la Resistenza in montagna non era ancora
sufficientemente organizzata. Così tornarono ai Campi rossi, poiché ritennero
fosse più importante rimanere in pianura e mantenere i collegamenti con i primi
nuclei partigiani che via via andavano formandosi, nascondendo le armi e
diffondendo la stampa clandestina. I fascisti non tardarono però a stroncare
l’intensa attività cospirativa dei Cervi, infatti all’alba del 25 novembre 1943,
un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine
della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e
condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Stessa sorte toccò al
padre Alcide che non volle abbandonarli, al compagno partigiano Quarto Cimurri e
ad alcuni ex prigionieri alleati, tra i quali Dante Castellucci che si fece
passare per francese.
Alla fine la casa della famiglia venne completamente bruciata dai fascisti, con
le donne ed i bambini abbandonati in strada.
Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli
vennero condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio, alle ore
6,30 del 28 dicembre 1943.
“Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole
del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie
Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi.
Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide
e con gli 11 nipoti.
Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del
vecchio padre sette Medaglie d’Argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli.
Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana,
partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste.
Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000
persone.
La casa del Cervi è oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura,
dell’antifascismo e della Resistenza.