Passeggiata spaziale con brivido
Un
guasto alla tuta spaziale
ha messo
in seria difficoltà l’astronauta italiano Luca Parmitano
di Marco Torricelli
Houston, abbiamo un problema: la tuta spaziale
fa acqua!
La seconda attività extraveicolare di Luca
Parmitano dalla Stazione Spaziale Internazionale dello scorso 16 luglio,
denominata EVA-23, si è conclusa dopo appena un'ora e mezza a seguito
dell'ordine "terminate" emesso dal
controllo di missione americano: mettere in sicurezza il posto di lavoro
all'esterno della stazione e rientrare. La terminazione anticipata dell'attività
prevista si è resa necessaria perché il
casco di Parmitano si è allagato.
A parte la comprensibile preoccupazione di
Parmitano e del suo collega NASA Christopher Cassidy che
era
fuori con lui, non vi sono state conseguenze. Anzi, David Korth, il direttore di
volo, ha espresso i suoi complimenti a Parmitano per la "grazia" mostrata "sotto
stress", nonstante che l'astronauta ESA si trovasse di fatto "con la testa in
una boccia per pesci rossi". L'acqua, che in assenza di gravità forma bolle che
si muovono liberamente per l'elmetto, aveva reso inutilizzabili le cuffie usate
da Parmitano per ricevere le comunicazioni, e aveva ridotto la funzionalità del
visore. Dal momento dell'ordine di rientro a quando Parmitano ha potuto
togliersi l'elmetto sono passati circa 25 minuti - non un precipitoso rientro
d'emergenza come sarebbe quello di un ordine "abort"
- seguiti da un breve periodo di intenso uso di asciugamani da parte dei
colleghi che erano rimasti a bordo della ISS, trasformatisi per l'occasione in
garzoni di parrucchiere.
Il problema però che
Non è certo la prima volta che si presentano
problemi alla tuta durante un'EVA. Già in occasione della prima in assoluto,
durante la missione Voskhod-2 nel marzo 1965, il cosmonauta Aleksej Leonov
rischiava di non riuscire a rientrare nella capsula, in quanto la differenza di
pressione tra l'interno della tuta e il vuoto dello spazio aveva rigonfiato la
tuta stessa (un modello Berkut, ottenuto adattando all'EVA il modello SK-
Le EVA rivestono una grande importanza
specialmente per missioni lunghe come quelle della ISS, in quanto una grande
quantità di riparazioni e modifiche possono essere compiute solo da mani umane e
dal lato esterno. Le tute per EVA quindi devono trovare un difficile equilibrio
tra mobilità, comfort e protezione. Fino ad ora, le tute EVA sono per lo più
semirigide - combinano cioè degli elementi simili ad armature medioevali per
tronco e testa con delle parti flessibili per gli arti. Le parti rigide servono
non tanto alla protezione quanto al sostegno di componenti massicci e
ingombranti, come dispositivi di comunicazione, sistemi di respirazione,
batterie elettriche.
Al di sotto della tuta viene indossata una
specie di muta da sub (oltre che a un 'pannolone' dall'evidente scopo), in cui
scorre dell'acqua dedicata al raffreddamento del corpo dell'astronauta. Nello
spazio, infatti, può fare molto caldo: i raggi solari non sono mitigati da
alcuna atmosfera. Le tute A7L già citate avevano un sistema di raffreddamento
talmente efficiente che, pure sulla rovente parte illuminata della Luna, ben
pochi astronauti impostarono il raffreddamento al massimo.
Il problema con i sistemi flessibili e
pressurizzati - cioè, in cui viene mantenuta la pressione atmosferica
sull'intero corpo - è che per fare alcuni movimenti, in particolare quelli che
variano il volume della tuta - è necessario compiere lavoro contro la tuta
stessa, o meglio, contro l'aria che in essa è contenuta. Lo stesso principio per
cui ci si affatica gonfiando la ruota di una bicicletta: il lavoro contro l'aria
è pari alla pressione interna della tuta, moltiplicata per la variazione di
volume.
Proprio per evitare questo inconveniente delle
tute interamente pressurizzate e flessibili, si sta cercando, fin dagli anni
Sessanta, di costruire quella che è definita una "Space Activity Suit", cioè una
tuta EVA aderente - eccezion fatta per il casco rigido. Per impedire
l'espansione dei muscoli e degli organi in atmosfera zero, invece che utilizzare
la pressione dell'aria contenuta nella tuta, l'idea è di applicare una pressione
meccanica alla pelle tramite una rete di inserti elastici disposta sull'intero
corpo. Alcuni prototipi sono già allo studio, per esempio al MIT di Boston, dove
la professoressa Dava Newman e il suo gruppo hanno presentato i primi modelli
della loro Bio-Suit, una muta di elastan - realizzata con l'aiuto della NASA e
di Dainese, una ditta vicentina specializzata in abbigliamento per motociclisti.
Un altro problema è
costituito dai guanti (foto sopra). Gli scopi principali di un'EVA prevedono la
manipolazione di strumenti e - nel caso dell'esplorazione di astri - addirittura
di campioni di materiale. La struttura di un guanto è particolarmente complessa,
per cui trovare l'equilibrio tra protezione e mobilità diventa particolarmente
difficile. Per questo è stato lanciato nel 2007 il concorso "Astronaut Glove
Challenge" - all'inizio finito senza vincitori. Dopo due anni è stato vinto da
Peter Homer, un ingegnere aerospaziale disoccupato, il quale è riuscito a
produrre un guanto che, pur essendo a perfetta tenuta stagna e garantendo una
buona compressione della mano, offre una mobilità delle dita superiore a quella
richiesta dalla NASA; e così a meritarsi un premio di 250'000 dollari.