Giustizia partigiana

Contestato un libro di Sergio Luzzatto

 

Lo storico non contestualizza, non tiene conto del clima di quel periodo con la gente esacerbata dalle atrocità commesse dai nazifascisti.

Si può giudicare il movimento partigiano sulla base di un episodio di giustizia sommaria

riferito da Primo Levi?

 

 

 

di Mario Talli

 

 

 

 10 agosto 1944: l'eccidio fascista di Piazzale Loreto a Milano: 15 partigiani furono fucilati dalla legione "Ettore Muti" per ordine del comando di sicurezza nazista. I cadaveri dei martiri rimasero esposti al pubblico. Nello stesso angolo del piazzale, il 29 aprile 1945 furono esposti i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi giustiziati per ordine del CLNAI

    Un appunto di Primo Levi ha fornito il pretesto allo storico Sergio Luzzatto per una ennesima e un po' estemporanea riflessione su una pagina meno esaltante della Resistenza. Ribaltando il proverbio si potrebbe dire che il topolino ha partorito la montagna. Partigia è il titolo del libro. Uscito di recente, ha già suscitato vivaci polemiche. *

      Me ne occuperò parlandone eccezionalmente in prima persona, poiché a quegli eventi partecipai pur se all'epoca avevo solo quindici anni. Dalla lettura del libro e da ciò che ne è stato detto e scritto ritengo di poter intanto isolare il tema principale della polemica e cioè, in poche parole, se sia storicamente lecito partire da un singolo episodio per esprimere un giudizio generale sulla Resistenza. Gad Lerner, Marco Revelli ed altri contestatori lo negano, Luzzatto sull'Espresso si dice convinto del contrario, essendo il suo “non un libro su due ragazzi condannati a morte”, bensì “un testo che vuole essere una storia della Resistenza e che si misura con la storia del dopo-Resistenza”. Quindi, in sostanza, avvalora la tesi di chi lo critica e al tempo stesso ribadisce la giustezza del suo operato.

     Tralascio, per non allungare troppo il discorso e non perché sia meno importante nel bilancio complessivo della narrazione, il riferimento a Primo Levi e al suo senso di colpa per aver condiviso, durante la sua breve esperienza in montagna prima della cattura e del campo di concentramento, la fucilazione ad opera dei suoi stessi compagni di due giovani appartenenti alla formazione per comportamenti non consoni alla guerra partigiana. (Questo è l'episodio, desunto dall'annotazione di  Levi, da cui sarebbe nato Partigia).

    Di Sergio Luzzatto ho letto e apprezzato “Padre Pio. Miracoli e politica nell'Italia del Novecento”, ma devo dire che la replica ai suoi critici non mi convince quasi per nulla. L'unica cosa su cui sono d'accordo è che dei fatti storici e quindi anche della Resistenza si debbano perlustrare sia le luci che le ombre. E' così vero da essere ovvio. L'autore di “Pertigia” si pone qui come se altri prima di lui non avessero usato questo metro: da Roberto Battaglia a Ruggero Zangrandi a Paolo Spriano; ad altri vicini ai giorni nostri come Guido Crainz.  E infine da un certo numero di reduci dell'una e dell'altra parte.  Conosco anche un tale che ne ha parlato ripetutamente in termini scandalistici, appunto per scandalizzare, far parlare di sé e vendere di più: un'operazione commerciale e nient'altro.     

       Non sono d'accordo con Luzzatto e anzi mi sorprende che uno storico affermi a sua difesa:  “Nove anni fa ho pubblicato un pamplet, La crisi dell'antifascismo: ragionavo sul fatto che la memoria ha i suoi tempi, quelli in cui diventa matura, ma anche quelli in cui marcisce...” Secondo il mio modesto parere (non sono uno storico) non marcisce proprio nulla, tanto meno l'idea antifascista, almeno fino a quando vi sarà chi il fascismo, nelle sue varie forme, tuttora lo esalta e vorrebbe riproporcelo. 

     Un altro aspetto non secondario dell'esperienza partigiana, ossia il suo rapporto con il resto della popolazione, è affrontato da Luzzatto in un modo che rivela, se non altro, un difetto di documentazione. Egli in sostanza considera quell'esperienza un fatto elitario, che non ha avuto l'appoggio degli italiani. La mia conoscenza diretta, ma anche le mie cognizioni de jure et de facto mi inducono a smentirlo. E, d'altronde, come avrebbero fatto i partigiani a sopravvivere in montagna e nei boschi se non vi fosse stato l'aiuto  continuo  della gente, specie dei contadini e di coloro che abitavano nei paesi e nelle campagne? A volte si approvvigionavano per conto loro, con rapide incursioni nelle fattorie e nei casali, ma per il resto era la popolazione a rifornirli di cibarie, abiti, scarpe, armi (magari solo fucili da caccia), anche perché spesso aveva tra costoro i propri figli, fratelli e nipoti. E persino per una generica solidarietà “politica”, perché è proprio in quei frangenti e in quel periodo, dall'8 settembre '43 ai primi mesi del '45,  che pure nei contadini, come era già avvenuto tra gli operai,  si sprigionano i primi barlumi di una coscienza politica se non addirittura di classe. 

       Ma la questione centrale del libro è la giustizia partigiana, la pagina più controversa della Resistenza. Non c'è chi non neghi, almeno oggi, che quella fu una pagina che sarebbe stato meglio non fosse mai stata scritta. Ma come fa uno storico ad emettere giudizi senza almeno tentare di calarsi in quel contesto di stragi e atrocità, di prepotenze infinite, di impiccagioni vendicative e dimostrative, di torture e di esecuzioni sommarie ad opera dell'esercito occupante e dei suoi alleati in camicia nera? O a trascurare i sentimenti più profondi, lo stato d'animo di una popolazione vessata da anni di privazioni, di fame e mercato nero, di lutti e distruzioni, che non ne poteva più della guerra, semmai l'avesse davvero un tempo desiderata? Non tutti possono avere le qualità di un Braudel o Le Goff, ma almeno si provi a  seguirne le orme dal punto di vista metodologico! Come d'altronde mi pare Luzzatto fosse riuscito a fare con il libro, molto documentato,  sulla figura controversa di Padre Pio.           

     La giustizia partigiana,  interrogò all'epoca, durante lo svolgersi dei fatti,  tanti di noi, specialmente noi più giovani, il cui animo non era  “allenato” a fronteggiare la paura della morte subìta o inflitta e tutte le altre spietate leggi della guerra. Aveva per esempio inquietato, anche un mio collega -  Mario Lenzi, nella sua seconda vita vice direttore di Paese Sera, direttore del Tirreno di Livorno e  altre cose ancora  -  impegnato, anche lui giovanissimo, in una formazione partigiana che operava nel Livornese e nella Maremma grossetana. Tanto è vero che ci capitò più volte, l'ultima  molto prima che Mario morisse, diciamo una ventina di anni fa, di parlarne.  (Nella foto a sinistra: il monumento al partigiano eretto a Parma, opera di Marino Mazzacurati)

    Io, per mia fortuna, non ho mai assistito direttamente a episodi di giustizia sommaria, Mario invece si. E ricordo molto bene, come me li avesse raccontati ieri, alcuni dei fatti cui partecipò più o meno direttamente. Un giorno il suo distaccamento aveva assaltato un convoglio tedesco nei pressi di Castagneto Carducci; un camion carico di truppe aveva preso fuoco, un altro era precipitato in una scarpata e sul terreno erano rimasti, morti o feriti,  i corpi di molti soldati. Per rappresaglia i tedeschi entrarono in una casa colonica e la bruciarono insieme agli abitanti, poi fucilarono tre contadini sorpresi a  lavorare nei campi.      

     Fatti ancora più tragici avvennero press'appoco nello stesso periodo a Niccioleta, località sulla strada di campagna che da Massa Marittima conduce a Siena, dove i minatori avevano occupato una miniera di pirite di ferro per impedire che i tedeschi facessero saltare le gallerie. “Difendevano – mi ricordo come fosse ieri le parole di Mario – la loro patria concreta, fatta di famiglie e di lavoro”. Poco dopo arrivarono alcuni reparti della Werhmhacht che intimarono agli occupanti, armati soltanto degli strumenti di lavoro,  di arrendersi. Al loro rifiuto, sei furono fucilati sul posto e altri settantasette a Castelnuovo Val di Cecina. Quell'episodio mi era tristemente noto, Mario me ne specificò i particolari. E mi raccontò che un paio di giorni dopo una pattuglia della sua formazione tornò alla base con tre militari tedeschi che, intercettati, si erano subito arresi gettando per terra le armi di cui erano dotati. Fra i partigiani, memori dell'ancora fresco episodio di Niccioleta e dintorni, si aprì una vivace discussione: alcuni, tra i quali due russi e tre polacchi,  volevano fucilarli immediatamente; altri  esitavano e proponevano di imbastire un processo, altri ancora intendevano mantenerli nella  condizione di prigionieri. Il commissario politico della formazione, nome di battaglia Andrea, si frappose tra i prigionieri e i partigiani e pronunciò press'appoco queste parole: “Noi siamo diversi. Non usiamo gli stessi metodi spietati dei nostri nemici. Dobbiamo sparare a quelli che ci sparano e occupano il nostro Paese. Ma l'odio non deve essere indiscriminato, altrimenti saremmo peggio delle bestie.” Seguì una vivace discussione. Non pochi insistevano per l'esecuzione sommaria: “Forse questi tre erano fra coloro che hanno ucciso i contadini di Castagneto e i minatori di Niccioleta”, disse più d'uno. Ci fu una votazione, l'esortazione del commissario politico ebbe la maggioranza dei consensi e i tre furono chiusi in una capanna. Mario poi mi rivelò che dietro lo pseudonimo Andrea si occultava Italo Bargagna, il quale dopo la liberazione fu il primo sindaco di Pisa.

     Infine mi parlò di un altro episodio, che aveva avuto una conclusione diversa. “ A Suvereto (località prossima a Piombino, n.d.r.) un reparto della GNR con le sue gesta aveva seminato il terrore fra la popolazione. Molti giovani, alcuni appena ventenni, che non avevano risposto alla chiamata alle armi erano stati rastrellati e uccisi. Altri erano stati deportati in Germania. Un nostro commando espugnò la caserma, catturò i miliziani responsabili dell'eccidio e dopo un sommario processo li fucilò....”.

       Mi pare che da questo breve racconto traspaia la spietata crudezza della guerra tra nazisti e fascisti da una parte e partigiani dall'altra, con l'accavallarsi continuo di episodi simili, con le differenti reazioni emozionali dei protagonisti spesso, specie tra i partigiani,  molto diversi per nazionalità, cultura, idee politiche e  provenienza sociale. In quel coacervo di scontri senza regole e di destini continuamente in bilico, non era facile mantenere il necessario discrimine tra il comportamento giusto e quello ingiusto. E' senz'altro molto più facile seduti alla scrivania o davanti al computer, nel silenzio ovattato di una stanza, emettere giudizi e distribuire severe rampogne senza cercare di immedesimarsi, per quanto possibile, nelle situazioni che ci si accinge a raccontare.

     Per alleggerire il racconto citerò un episodio di cui fui io ad essere insieme spettatore e coprotagonista. Il luogo è il mio paese, situato anch'esso in Toscana, ma nella parte interna della regione: Montaione. La guerra, per noi, era finita da circa un mese. La 5^ Armata americana era ormai lontana, ferma ai piedi della Linea Gotica. Le funzioni amministrative erano esercitate dal CLN, che anche cooperava con la stazione dei carabinieri per l'ordine pubblico. Un giorno fummo avvertiti che un ufficiale delle brigate nere, residente in una frazione del nostro comune, era tornato a casa dopo aver partecipato alla guerra antipartigiana nell'Italia Settentrionale. Un drappello della nostra formazione, ancora non del tutto smobilitata, si recò a prelevarlo.

La bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale

   Nel frattempo la notizia si era diffusa e quando il gruppetto arrivò in vista del paese, un centinaio di persone infuriate tentò di avventarsi sul malcapitato. Le più accese erano  le donne, in maggioranza sfollate con le rispettive  famiglie da Livorno, Pisa e altre città bersaglio preferito delle Fortezze Volanti americane. Molte di quelle persone avevano avuto la casa distrutta e propri congiunti sepolti sotto le macerie. Non so quale sorte sarebbe toccata al “prigioniero” se i suoi custodi non avessero formato un circolo con lui in mezzo e non avessero sparato alcuni colpi di pistola in aria. La folla urlante arretrò di alcuni passi e si sparse intorno, esitante ma sempre minacciosa. Quei pochi istanti permisero ai miei compagni, cui mi accodai, di raggiungere correndo  la caserma dei carabinieri non molto lontana.

      In quei momenti concitati notai, debbo dire con sorpresa, che il primo ad estrarre la pistola dalla tasca della giacca e a esplodere alcuni colpi verso il cielo, era stato un ergastolano che alcuni mesi prima si era aggregato alla formazione dopo essere fuggito, approfittando di un bombardamento aereo, dal carcere di Volterra. Era un uomo ancora giovane, riservato e  poco ciarliero.  Qualche giorno dopo il suo arrivo si seppe che era un operaio genovese, mi pare un portuale, che aveva ucciso un uomo durante una rissa. Di passaggio aggiungo che alla sparatoria partecipai anch'io, esplodendo in aria l'unico colpo della mia arma, una pistola a tamburo piuttosto piccola fabbricata in Spagna. Mi era stata consegnata una notte (credo perché nessun altro la voleva) durante la spartizione delle armi prelevate, col suo consenso, presso la villa di un proprietario terriero che avendo alle spalle qualche compromissione col fascismo, voleva emendarsi ora che sulle sorti della guerra non c'erano più dubbi. Quando quell'arma mi fu data, nel tamburo aveva solo due proiettili. Uno, come ho detto, lo sparai in quel concitato episodio. L'altro  lo avevo esploso inavvertitamente qualche tempo prima giocherellando con l'arma che tenevo in una tasca dei pantaloni alla zuava. Il proiettile si era conficcato nella terra, a qualche centimetro dal mio piede destro.

         Perché ho raccontato questo episodio, tutto sommato modesto? Per dimostrare che in tutte le vicende, dalle più grandi a quelle più trascurabili,  è sempre presente l'imponderabile. E quando gli attori in gioco sono tanti, molte e molto diverse possono essere le reazioni di ciascuno in occasioni eccezionali come quelle di cui si parla.   Nel caso in questione chi avrebbe potuto immaginare che il primo ad agire con determinazione per garantire l'incolumità del “prigioniero” sarebbe stato proprio lui, l'ergastolano omicida?                                                                                                

       Mi si consenta infine un' obiezione di fondo. Che senso ha, una volta accertato, documentato e propalato che la Resistenza insieme a tanti episodi di sacrificio e di eroismo  annoverò anche   episodi crudeli e spietati, tornare ad insistervi settanta anni dopo senza portare elementi nuovi di informazione e di conoscenza? 

     Quel che più conta (mi scuso se ora sono io a indossare l'abito del predicatore saccente), a parte la citazione giornalistica di alcuni episodi che se pur significativi non hanno valore universale, è ricostruire e far rivivere il contesto in cui determinati fatti sono avvenuti. Si obietterà che contestualizzare potrebbe essere un sotterfugio per giustificare qualsiasi efferatezza, tuttavia è solo in questo modo che si può fare storia. Avendo contezza delle condizioni ambientali, psicologiche, politiche  e sociali, mi verrebbe da dire  antropologiche di una determinata realtà.

 E qual'era il contesto in quell'anno e mezzo circa che va dal luglio 1943 alla Primavera (in senso stagionale e simbolico) del 1945? Me lo ricordo bene: come ho detto ero poco più che un ragazzo , ma in quegli anni e proprio anche in virtù di quei frangenti, si diventava adulti molto prima di quanto avviene oggi. Dopo il 25 luglio e la caduta del fascismo decretata dallo stesso massimo organo rappresentativo del regime, la quasi totalità degli italiani, compresi la maggior parte di coloro che pochi anni prima, il 10 giugno 1940, avevano riempito entusiasti e plaudenti Piazza Venezia, salutarono con sollievo e speranza l'immminente fuoriuscita del nostro Paese dalla guerra.  

 

    Che cosa accadde, invece? Può sembrare superfluo ricordarlo. Ma non è così, come in parte anche il libro di Luzzatto dimostra. Com'è noto, i tedeschi reagirono alla  caduta di Mussolini e al successivo armistizio occupando l'Italia fiancheggiati dai  fascisti più irriducibili, gli stessi che nei primi anni '20 avevano piegato con la violenza, la complicità del Re e l'inettitudine di buona parte della classe politica avversari, leggi e statuti e che  negli anni successivi erano stati i guardiani del regime e delle sue malefatte. Il lettore  faccia uno sforzo e cerchi di immaginare  lo stato d'animo di chi venti anni prima subì le violenze di quelle stesse persone che ora gli imponevano di riprendere una guerra da cui  ritenevano di essere finalmente usciti. E cerchi anche di immedesimarsi nella mente e nel cuore dei militari tornati alle loro case (i più fortunati) dai fronti più diversi in seguito allo sbandamento dell'esercito, nonché dei giovani di leva richiamati alle armi da un governo fantoccio per combattere, nonostante l'armistizio, contro gli eserciti alleati.

 

                                                                                                        

                                                                                                                              

* Sergio Luzzato: “Partigia. Una storia della Resistenza”. Ed. Mondadori

Il Galileo