Contestato un libro di Sergio Luzzatto
Lo
storico non contestualizza, non tiene conto del clima di quel periodo con la
gente esacerbata dalle atrocità commesse dai nazifascisti.
Si può
giudicare il movimento partigiano sulla base di un episodio di giustizia
sommaria
riferito
da Primo Levi?
di Mario Talli
Un appunto di Primo Levi ha fornito il pretesto allo storico Sergio
Luzzatto per una ennesima e un po' estemporanea riflessione su una pagina meno
esaltante della Resistenza. Ribaltando il proverbio si potrebbe dire che il
topolino ha partorito la montagna. Partigia è il titolo del libro. Uscito
di recente, ha già suscitato vivaci polemiche. *
Me ne occuperò parlandone eccezionalmente in prima persona, poiché a
quegli eventi partecipai pur se all'epoca avevo solo quindici anni. Dalla
lettura del libro e da ciò che ne è stato detto e scritto ritengo di poter
intanto isolare il tema principale della polemica e cioè, in poche parole, se
sia storicamente lecito partire da un singolo episodio per esprimere un giudizio
generale sulla Resistenza. Gad Lerner, Marco Revelli ed altri contestatori lo
negano, Luzzatto sull'Espresso si dice convinto del contrario, essendo il
suo “non un libro su due ragazzi condannati a morte”, bensì “un testo che vuole
essere una storia della Resistenza e che si misura con la storia del
dopo-Resistenza”. Quindi, in sostanza, avvalora la tesi di chi lo critica e al
tempo stesso ribadisce la giustezza del suo operato.
Tralascio, per non allungare troppo il discorso e non perché sia meno
importante nel bilancio complessivo della narrazione, il riferimento a Primo
Levi e al suo senso di colpa per aver condiviso, durante la sua breve esperienza
in montagna prima della cattura e del campo di concentramento, la fucilazione ad
opera dei suoi stessi compagni di due giovani appartenenti alla formazione per
comportamenti non consoni alla guerra partigiana. (Questo è l'episodio, desunto
dall'annotazione di Levi, da cui
sarebbe nato Partigia).
Di Sergio Luzzatto ho letto e apprezzato “Padre Pio. Miracoli e
politica nell'Italia del Novecento”, ma devo dire che la replica ai suoi
critici non mi convince quasi per nulla. L'unica cosa su cui sono
d'accordo è che dei fatti storici e quindi anche della Resistenza si debbano
perlustrare sia le luci che le ombre. E' così vero da essere ovvio. L'autore di
“Pertigia” si pone qui come se altri prima di lui non avessero usato
questo metro: da Roberto Battaglia a Ruggero Zangrandi a Paolo Spriano; ad altri
vicini ai giorni nostri come Guido Crainz. E
infine da un certo numero di reduci dell'una e dell'altra parte.
Conosco anche un tale che ne ha parlato ripetutamente in termini
scandalistici, appunto per scandalizzare, far parlare di sé e vendere di più:
un'operazione commerciale e nient'altro.
Non sono d'accordo con
Luzzatto e anzi mi sorprende che uno storico affermi a sua difesa:
“Nove anni fa ho pubblicato un pamplet, La crisi dell'antifascismo:
ragionavo sul fatto che la memoria ha i suoi tempi, quelli in cui diventa
matura, ma anche quelli in cui marcisce...” Secondo il mio modesto parere (non
sono uno storico) non marcisce proprio nulla, tanto meno l'idea antifascista,
almeno fino a quando vi sarà chi il fascismo, nelle sue varie forme, tuttora lo
esalta e vorrebbe riproporcelo.
Un altro aspetto non secondario dell'esperienza partigiana, ossia il suo rapporto con il resto della popolazione, è affrontato da Luzzatto in un modo che rivela, se non altro, un difetto di documentazione. Egli in sostanza considera quell'esperienza un fatto elitario, che non ha avuto l'appoggio degli italiani. La mia conoscenza diretta, ma anche le mie cognizioni de jure et de facto mi inducono a smentirlo. E, d'altronde, come avrebbero fatto i partigiani a sopravvivere in montagna e nei boschi se non vi fosse stato l'aiuto continuo della gente, specie dei contadini e di coloro che abitavano nei paesi e nelle campagne? A volte si approvvigionavano per conto loro, con rapide incursioni nelle fattorie e nei casali, ma per il resto era la popolazione a rifornirli di cibarie, abiti, scarpe, armi (magari solo fucili da caccia), anche perché spesso aveva tra costoro i propri figli, fratelli e nipoti. E persino per una generica solidarietà “politica”, perché è proprio in quei frangenti e in quel periodo, dall'8 settembre '43 ai primi mesi del '45, che pure nei contadini, come era già avvenuto tra gli operai, si sprigionano i primi barlumi di una coscienza politica se non addirittura di classe.
Ma la questione centrale del libro è la giustizia partigiana, la pagina
più controversa della Resistenza. Non c'è chi non neghi, almeno oggi, che quella
fu una pagina che sarebbe stato meglio non fosse mai stata scritta. Ma come fa
uno storico ad emettere giudizi senza almeno tentare di calarsi in quel contesto
di stragi e atrocità, di prepotenze infinite, di impiccagioni vendicative e
dimostrative, di torture e di esecuzioni sommarie ad opera dell'esercito
occupante e dei suoi alleati in camicia nera? O a trascurare i sentimenti più
profondi, lo stato d'animo di una popolazione vessata da anni di privazioni, di
fame e mercato nero, di lutti e distruzioni, che non ne poteva più della guerra,
semmai l'avesse davvero un tempo desiderata? Non tutti possono avere le qualità
di un Braudel o Le Goff, ma almeno si provi a
seguirne le orme dal punto di vista metodologico! Come d'altronde mi pare
Luzzatto fosse riuscito a fare con il libro, molto documentato,
sulla figura controversa di Padre Pio.
La giustizia partigiana,
interrogò all'epoca, durante lo svolgersi dei fatti,
tanti di noi, specialmente noi
più
giovani, il cui animo non era
“allenato” a fronteggiare la paura della morte subìta o inflitta e tutte le
altre spietate leggi della guerra. Aveva per esempio inquietato, anche un mio
collega - Mario Lenzi, nella sua
seconda vita vice direttore di Paese Sera, direttore del Tirreno
di Livorno e altre cose ancora
- impegnato, anche lui
giovanissimo, in una formazione partigiana che operava nel Livornese e nella
Maremma grossetana. Tanto è vero che ci capitò più volte, l'ultima
molto prima che Mario morisse, diciamo una ventina di anni fa, di
parlarne.
Io, per mia fortuna, non ho mai assistito direttamente a episodi di
giustizia sommaria, Mario invece si. E ricordo molto bene, come me li avesse
raccontati ieri, alcuni dei fatti cui partecipò più o meno direttamente. Un
giorno il suo distaccamento aveva assaltato un convoglio tedesco nei pressi di
Castagneto Carducci; un camion carico di truppe aveva preso fuoco, un altro era
precipitato in una scarpata e sul terreno erano rimasti, morti o feriti,
i corpi di molti soldati. Per rappresaglia i tedeschi entrarono in una
casa colonica e la bruciarono insieme agli abitanti, poi fucilarono tre
contadini sorpresi a lavorare nei
campi.
Fatti ancora più tragici avvennero press'appoco nello stesso periodo a
Niccioleta, località sulla strada di campagna che da Massa Marittima conduce a
Siena, dove i minatori avevano occupato una miniera di pirite di ferro per
impedire che i tedeschi facessero saltare le gallerie. “Difendevano – mi
ricordo come fosse ieri le parole di Mario – la loro patria concreta, fatta
di famiglie e di lavoro”. Poco dopo arrivarono alcuni reparti della
Werhmhacht che intimarono agli occupanti, armati soltanto degli strumenti di
lavoro, di arrendersi. Al loro
rifiuto, sei furono fucilati sul posto e altri settantasette a Castelnuovo Val
di Cecina. Quell'episodio mi era tristemente noto, Mario me ne specificò i
particolari. E mi raccontò che un paio di giorni dopo una pattuglia della sua
formazione tornò alla base con tre militari tedeschi che, intercettati, si erano
subito arresi gettando per terra le armi di cui erano dotati. Fra i partigiani,
memori dell'ancora fresco episodio di Niccioleta e dintorni, si aprì una vivace
discussione: alcuni, tra i quali due russi e tre polacchi,
volevano fucilarli immediatamente; altri
esitavano e proponevano di imbastire un processo, altri ancora
intendevano mantenerli nella
condizione di prigionieri. Il commissario politico della formazione, nome di
battaglia Andrea, si frappose tra i prigionieri e i partigiani e pronunciò
press'appoco queste parole: “Noi siamo diversi. Non usiamo gli stessi metodi
spietati dei nostri nemici. Dobbiamo sparare a quelli che ci sparano e occupano
il nostro Paese. Ma l'odio non deve essere indiscriminato, altrimenti saremmo
peggio delle bestie.” Seguì una vivace discussione. Non pochi insistevano
per l'esecuzione sommaria: “Forse questi tre erano fra coloro che hanno
ucciso i contadini di Castagneto e i minatori di Niccioleta”, disse più
d'uno. Ci fu una votazione, l'esortazione del commissario politico ebbe
la maggioranza dei consensi e i tre furono chiusi in una capanna. Mario
poi mi rivelò che dietro lo pseudonimo Andrea si occultava Italo
Bargagna, il quale dopo la liberazione fu il primo sindaco di Pisa.
Infine mi parlò di un altro episodio, che aveva avuto una conclusione
diversa. “ A Suvereto (località prossima a Piombino, n.d.r.) un
reparto della GNR con le sue gesta aveva seminato il terrore fra la popolazione.
Molti giovani, alcuni appena ventenni, che non avevano risposto alla chiamata
alle armi erano stati rastrellati e uccisi. Altri erano stati deportati in
Germania. Un nostro commando espugnò la caserma, catturò i miliziani
responsabili dell'eccidio e dopo un sommario processo li fucilò....”.
Mi pare che da questo breve
racconto traspaia la spietata crudezza della guerra tra nazisti e fascisti da
una parte e partigiani dall'altra, con l'accavallarsi continuo di episodi
simili, con le differenti reazioni emozionali dei protagonisti spesso, specie
tra i partigiani, molto diversi per
nazionalità, cultura, idee politiche e
provenienza sociale. In quel coacervo di scontri senza regole e di
destini continuamente in bilico, non era facile mantenere il necessario
discrimine tra il comportamento giusto e quello ingiusto. E' senz'altro molto
più facile seduti alla scrivania o davanti al computer, nel silenzio ovattato di
una stanza, emettere giudizi e distribuire severe rampogne senza cercare di
immedesimarsi, per quanto possibile, nelle situazioni che ci si accinge a
raccontare.
Per alleggerire il racconto citerò un episodio di cui fui io ad essere
insieme spettatore e coprotagonista. Il luogo è il mio paese, situato anch'esso
in Toscana, ma nella parte interna della regione: Montaione. La guerra, per noi,
era finita da circa un mese. La 5^ Armata americana era ormai lontana, ferma ai
piedi della Linea Gotica. Le funzioni amministrative erano esercitate dal CLN,
che anche cooperava con la stazione dei carabinieri per l'ordine pubblico. Un
giorno fummo avvertiti che un ufficiale delle brigate nere, residente in una
frazione del nostro comune, era tornato a casa dopo aver partecipato alla guerra
antipartigiana nell'Italia Settentrionale. Un drappello della nostra formazione,
ancora non del tutto smobilitata, si recò a prelevarlo.
Nel frattempo la notizia si era diffusa e quando il gruppetto arrivò in
vista del paese, un centinaio di persone infuriate tentò di avventarsi sul
malcapitato. Le più accese erano le
donne, in maggioranza sfollate con le rispettive
famiglie da Livorno, Pisa e altre città bersaglio preferito delle
Fortezze Volanti americane. Molte di quelle persone avevano avuto la casa
distrutta e propri congiunti sepolti sotto le macerie. Non so quale sorte
sarebbe toccata al “prigioniero” se i suoi custodi non avessero formato un
circolo con lui in mezzo e non avessero sparato alcuni colpi di pistola in aria.
La folla urlante arretrò di alcuni passi e si sparse intorno, esitante ma sempre
minacciosa. Quei pochi istanti permisero ai miei compagni, cui mi accodai, di
raggiungere correndo la caserma dei
carabinieri non molto lontana.
In quei momenti concitati notai, debbo dire con sorpresa, che il primo ad
estrarre la pistola dalla tasca della giacca e a esplodere alcuni colpi verso il
cielo, era stato un ergastolano che alcuni mesi prima si era aggregato alla
formazione dopo essere fuggito, approfittando di un bombardamento aereo, dal
carcere di Volterra. Era un uomo ancora giovane, riservato e
poco ciarliero. Qualche
giorno dopo il suo arrivo si seppe che era un operaio genovese, mi pare un
portuale, che aveva ucciso un uomo durante una rissa. Di passaggio aggiungo che
alla sparatoria partecipai anch'io, esplodendo in aria l'unico colpo della mia
arma, una pistola a tamburo piuttosto piccola fabbricata in Spagna. Mi era stata
consegnata una notte (credo perché nessun altro la voleva) durante la
spartizione delle armi prelevate, col suo consenso, presso la villa di un
proprietario terriero che avendo alle spalle qualche compromissione
col
fascismo, voleva emendarsi ora che sulle sorti della guerra non c'erano più
dubbi. Quando quell'arma mi fu data, nel tamburo aveva solo due proiettili. Uno,
come ho detto, lo sparai in quel concitato episodio. L'altro
lo avevo esploso inavvertitamente qualche tempo prima giocherellando con
l'arma che tenevo in una tasca dei pantaloni alla zuava. Il proiettile si era
conficcato nella terra, a qualche centimetro dal mio piede destro.
Perché ho raccontato questo episodio, tutto sommato modesto? Per
dimostrare che in tutte le vicende, dalle più grandi a quelle più trascurabili,
è sempre presente l'imponderabile. E quando gli attori in gioco sono
tanti, molte e molto diverse possono essere le reazioni di ciascuno in occasioni
eccezionali come quelle di cui si parla.
Nel caso in questione chi avrebbe potuto immaginare che il primo ad agire
con determinazione per garantire l'incolumità del “prigioniero” sarebbe stato
proprio lui, l'ergastolano omicida?
Mi si consenta infine un' obiezione di fondo. Che senso ha, una volta
accertato, documentato e propalato che la Resistenza insieme a tanti episodi di
sacrificio e di eroismo annoverò
anche episodi crudeli e
spietati, tornare ad insistervi settanta anni dopo senza portare elementi nuovi
di informazione e di conoscenza?
Quel che più conta (mi scuso se ora sono io a indossare l'abito del
predicatore saccente), a parte la citazione giornalistica di alcuni episodi che
se pur significativi non hanno valore universale, è ricostruire e far rivivere
il contesto in cui determinati fatti sono avvenuti. Si obietterà che
contestualizzare potrebbe essere un sotterfugio per giustificare qualsiasi
efferatezza, tuttavia è solo in questo modo che si può fare storia. Avendo
contezza delle condizioni ambientali, psicologiche, politiche
e sociali, mi verrebbe da dire
antropologiche di una determinata realtà.
E
qual'era il contesto in quell'anno e mezzo circa che va dal luglio 1943 alla
Primavera (in senso stagionale e simbolico) del 1945? Me lo ricordo bene: come
ho detto ero poco più che un ragazzo , ma in quegli anni e proprio anche in
virtù di quei frangenti, si diventava adulti molto prima di quanto avviene oggi.
Dopo il 25 luglio e la caduta del fascismo decretata dallo stesso massimo organo
rappresentativo del regime, la quasi totalità degli italiani, compresi la
maggior parte di coloro che pochi anni prima, il 10 giugno 1940, avevano
riempito entusiasti e plaudenti Piazza Venezia, salutarono
con sollievo e speranza l'immminente fuoriuscita del nostro Paese dalla guerra.
Che cosa accadde,
invece? Può sembrare superfluo ricordarlo. Ma non è così, come in parte anche il
libro di Luzzatto dimostra. Com'è noto, i tedeschi reagirono alla
caduta di Mussolini e al successivo armistizio occupando l'Italia
fiancheggiati dai fascisti più
irriducibili, gli stessi che nei primi anni '20 avevano piegato con la violenza,
la complicità del Re e l'inettitudine di buona parte della classe politica
avversari, leggi e statuti e che
negli anni successivi erano stati i guardiani del regime e delle sue malefatte.
Il lettore faccia uno sforzo e
cerchi di immaginare lo stato
d'animo di chi venti anni prima subì le violenze di quelle stesse persone che
ora gli imponevano di riprendere una guerra da cui
ritenevano di essere finalmente usciti. E cerchi anche di immedesimarsi
nella mente e nel cuore dei militari tornati alle loro case (i più fortunati)
dai fronti più diversi in seguito allo sbandamento dell'esercito, nonché dei
giovani di leva richiamati alle armi da un governo fantoccio per combattere,
nonostante l'armistizio, contro gli eserciti alleati.
* Sergio Luzzato:
“Partigia. Una storia della Resistenza”. Ed. Mondadori