Lied o lead?

Garbata polemica con gli amici pedanti

 

di Giuseppe Prunai

 

 

Dopo la pubblicazione, sul numero di maggio de “Il Galileo” dell’articolo “Il bis del presidente – riflessioni a ruota libera sul linguaggio dei media” (https://www.il-galileo.eu/n17/prunai.html), ho ricevuto molte e mail,  soprattutto da parte di giovani colleghi (ma anche da colleghi diversamente… giovani), che mi hanno chiesto  perché abbia scritto “lied” e non “lead”.  Lead – mi hanno contestato sostanzialmente – è parola inglese che vuol dire titolo mentre lied è parola tedesca che vuol dire canzone nel senso odierno della parola.

Giustissimo.  Lead, in inglese, vuol dire condurre, fare strada, essere avanti, essere in testa, essere al comando. Da qui, il termine ha assunto, nel linguaggio giornalistico,  il significato di esordio, di attacco, di titolo.

Lied, in tedesco,  vuol dire canzone. Nel linguaggio moderno è la canzonetta, ma  in quello classico si riferisce all’antica ballata, alla cosiddetta canzone a ballo  il cui primo e secondo verso illustrano l’argomento del poemetto.

Il lied (plurale lieder) risale all’età carolingia.  E, di evoluzione in evoluzione, ha raggiunto il culmine nel periodo romantico per giungere ai giorni nostri.  Fra i lieder più famosi, ricordiamo quello di Brahms, noto come Ninna Nanna, e quello di Schubert, conosciuto come Ave Maria. Numerosi letterati tedeschi si sono cimentati nel lied. Limitandoci al periodo romantico, ricordiamo  Goethe, Schiller e Heine. Anzi, Goethe (immagine e destra) ha scritto diffusamente sulla struttura di questa ballata.

I lieder somigliavano un po’ alle antiche ballate dei nostri menestrelli del Medio Evo che, girando di castello in castello, raccontavano fatti e avvenimenti accompagnandosi con il liuto. Una pratica che, mutatis mutandis, è arrivata fino a noi con i cantastorie che sostano nelle fiere di paese e raccontano in musica e in versi zoppicanti, recenti fatti di cronaca aiutandosi con illustrazioni, spesso piuttosto schematiche ma che trasmettono un’informazione estremamente diretta.

Quando un moderno conferenziere si aiuta con delle slides o con delle presentazioni in power point, ha un modo di procedere poco dissimile da quello del cantastorie. La differenza sta soltanto nel compenso che riceve.

Ma i lieder, come del resto le ballate delle lingue romanze, cantate dai troubadours, dai trouvères e dai menestrelli, avevano una caratteristica: nella prima strofa, nei primi versi c’era l’argomento, il contenuto della composizione.

Del resto, questa è pratica comune alla stragrande maggioranza dei componimenti in poesia e in prosa, sia letterari che scientifici.

Si potrebbero fare migliaia di esempi.

L’Odissea, nella traduzione di Vincenzo Monti (a sinistra nel ritratto da Andrea Appiani) , si apre con un’invocazione alla musa che contiene il contenuto del poema:

“Cantami, o diva, del pelìde Achille l’ira funesta

Che infiniti addusse lutti agli Achei…. ”

e continua descrivendo l’impatto del comportamento di Achille sull’assedio di Troia.

L’Odissea, nella traduzione di Ippolito Pindemonte, debutta con questi versi:

“Musa, quell’uom di multiforme ingegno, dimmi,

 che molto errò poich’ebbe a terra gittate

d’Ilïòn le sacre torri…”

e prosegue descrivendo i viaggi d’Ulisse per mare e per terra.

Annibal Caro, nella sua traduzione dell’Eneide, dopo essere presentato come:

quell’io che già tra selve e tra pastori

di Titiro suonai l’ umil  zampogna…”

affronta il tema del poema:

“ L’armi canto e ‘l valore del grand’eroe

 che pria da Troia, per destino, a i liti

 d’Italia e di Lavinio errando venne…”

 

 

 

Nell'immagine a sinistra, Ippolito Pindemonte; a destra, Annibal  Caro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E si potrebbe continuare citando il Boiardo, l’Ariosto e il Tasso fino alla Ballata del prode Anselmo, componimento poetico scherzoso di Giovanni Visconti Venosta (1847-1860 - foto a destra):

“Passa un giorno, passa l’altro

Mai non torna il prode Anselmo,

Perché egli era molto scaltro

Andò in guerra e mise l’elmo…”

Anzi, questo incipit, ci sembra un bell’esempio di giornalismo moderno perché contiene le risposte alle cinque domande canoniche che deve chiarire una notizia: chi, dove, quando, come, perché; cinque regolette sempre presenti nella mente di qualsiasi cronista: da quello di un tempo che cercava le notizie facendo il “battone”  sui marciapiedi della propria città, a quello di oggi che le cerca sul web e spesso trova  soltanto delle bufale.

Adesso si parla della regola delle cinque W (pronuncia uai) perché la lingua inglese la fa da padrona: Who, chi; What, Cosa; When, quando; Wher, dove; Why, perché.

Così si insegna, attualmente, ai corsi di giornalismo e non si capisce perché un giornalista italiano, che deve scrivere in italiano (o almeno dovrebbe e si spera che lo faccia), per essere letto da un pubblico italiano debba tenere a mente le cinque regole basilari dell’informazione espresse in lingua inglese.

Quando si cominciò a codificare il linguaggio del giornalismo radiofonico (i primi scritti in proposito sono della fine degli anni 20 e degli anni 30), si riprese questo termine o per dare alla radio una identità classicheggiante o perché, più probabilmente, il termine era stato scelto da Bertolt Brecht (a sinistra) che si occupò moltissimo di radio e  di linguaggio radiofonico. Se non ricordo male,  mi sembra che anche Majakovskij abbia utilizzato lo stesso termine nei suoi scritti sulla radio.

La discussione sul linguaggio dell’informazione  radiofonica ha una sua data d’inizio che coincide con la messa in onda, il 7 gennaio 1929, dalle stazioni dell’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche   così si chiamava la RAI nel periodo fascista) del primissimo giornale radio della storia che si chiamò Giornale Parlato.

Il primo giornale radio fu salutato dal giornalista Ermanno Amicucci, allora sottosegretario alle Corporazioni (in seguito diresse la Gazzetta del popolo e poi il Corriere della sera) con un articolo sul “Radio Orario”, come si chiamava allora il Radiocorriere.

Amicucci, che al di là delle sue idee politiche che non condividiamo, aveva una cultura  abbastanza raffinata, scrive: “Il giornalista che parla è un nuovo tipo di giornalista che non ha bisogno di penna e di carta, che non conosce cartelle, né linotipisti, né piombo, né giornali; ma si serve unicamente della voce per esercitare la sua professione. E’ il giornalista che descrive, istante per istante, l’avvenimento dal punto preciso in cui si svolge, sotto i suoi occhi, e ne fa partecipe il pubblico in ascolto alla Radio nei più disparati e lontani luoghi del mondo”.

Numerosi i letterati e i linguisti che negli anni 30 si occuparono di linguaggio e di stilemi radiofonici. Impossibile ricordarli tutti e mi limito a citare il “Manifesto futurista della radio” di F.T. Marineti e P. Masnata, pubblicato nell’ottobre 1933 sulla Gazzetta del Popolo. Marinetti e Masnata, per prima cosa rinominano la radio chiamandola curiosamente  “la radia”.  Dopo avere affermato che “La radia” non deve essere né teatro, né cinematografo, né libro, ed aver constatato che abolisce numerosi orpelli e distanze, il manifesto si sofferma su ciò che la radia deve essere.

Al punto 1, si afferma che la radio deve essere “libertà da ogni punto di contatto con la tradizione letteraria e artistica. Qualsiasi tentativo di riallacciare la radia alla tradizione è grottesco”.  Al punto 2, si dice che la radio deve essere “un’arte nuova che comincia dove cessano il teatro, il cinematografo e la narrazione”.  Negli altri punti (20 in tutto), i due futuristi si soffermano sui vari aspetti dell’uso della radio che ricalcano i dettami del primo manifesto futurista.

Vale la pena di sottolineare che il punto primo del manifesto indica la necessità di trovare un linguaggio ad hoc per la radio che non dovrà imitare quelli già consolidati.

Ma torniamo alla nostra lied.

Da alcuni anni, in seguito alla colonizzazione da parte della lingua inglese,  si è diffuso il termine lead, omofono del tedesco lied. Io ho preferito restare fedele ai vecchi manuali di giornalismo radiofonico, scritti negli anni 50  dall’allora direttore del Giornale Radio Antonio Piccone Stella (a destra) e destinati ai suoi redattori. Era il periodo in cui erano riprese accese discussioni sul linguaggio della radio, soprattutto del giornale radio e numerosi erano gli interventi in materia da quelli di Corrado Alvaro, predecessore di Piccone Stella, a quelli di Carlo Emilia Gadda,  Alba De Cespedes, Anton Giulio Majano, Diego Calcagno, Pio Ambrogetti, Antonietta Drago, Giorgio Spini, Agostino Degli Espinosa, Vicenzo Talarico, cioè i più stretti collaboratori di quel poliedrico direttore.

Un’ultima annotazione: i manualetti di Piccone Stella venivano pubblicati praticamente a costo zero: erano ciclostilati. Perché il ciclostile era come il web di oggi: costava poco e rendeva molto in termini di diffusione.

 

Il Galileo