Il
rapporto medico-paziente
è
il primo strumento di cura
di
Luisa Monini
Dr. Francis Weld Peabody 1881-1927
“Una delle qualità essenziali del medico è l’interesse per l’Uomo, in quanto il
segreto della cura del paziente è averne cura”,
scriveva già negli anni ’20 sir Francis Peabody in “The Care of the Patient”.
Oggi il concetto di cura si è evoluto e ampliato in un’ottica di benessere
olistico.
“La relazione di cura è un atto di aiuto - scrive Franca Parizzi, infettivologa
e pediatra, in “La passione
che
cura”. Un atto che, oltre all’applicazione della scienza e della tecnologia
medica, implica il rapporto umano con il paziente, l’attenzione ai suoi
bisogni, la capacità di darvi risposta, di ascoltarlo, di comprenderlo, di
comunicare con lui e essere in grado di
sostenerlo psicologicamente. Tutti questi aspetti non hanno nulla a che
vedere con la competenza tecnico-scientifica, ma sono legati a fattori di
carattere psicologico, etico e relazionale”.
Oggi si parla molto di Umanizzazione della Medicina e di come rendere i
percorsi di cura più veloci, accessibili e senza troppe barriere burocratiche
ma, non si può parlare di Umanizzazione della Medicina prescindendo dal rapporto
sulla quale essa si fonda: il rapporto medico-paziente. Rapporto esclusivo,
privilegiato che però negli ultimi tempi è entrato in crisi.
Cos’è che si contesta al medico oggi? Forse che, strada facendo, nella corsa
frenetica verso più Scienza, più Tecnologia, più Burocrazia, ha perso di vista
quell’Alleanza Terapeutica con i propri pazienti che, sin dall’ antichità, ha
sempre caratterizzato la sua professione?
E
cosa ha alterato nel paziente la fiducia nel suo medico portandolo a dubitarne e
in certi casi persino a sfiduciarlo? Varie le ragioni. Il paziente oggi è molto
informato (internet, stampa, televisione, radio e così
via) e dunque vuole sapere tutto su ciò che riguarda la sua malattia e le cure
che gli vengono proposte.
Questo necessita tempo che il medico, sempre più oberato di impegni e nuove
responsabilità, ormai manager e burocrate della salute, non è spesso in grado di
dedicargli.
Eppure l’ascolto è già una forma di cura e la condivisione di un momento
particolarmente difficile, la compassione, può aiutare spesso il paziente più di
una medicina.
Non è facile. La formazione stessa del medico, analitica per eccellenza e sempre
più basata sulla tecnologia, fa sì che spesso il medico si senta a disagio,
impreparato, davanti a una manifestazione di sofferenza, di dolore, che lo
riporta alla fragilità, alla precarietà dell’essere umano (le sue stesse); e
allora è molto più sbrigativo e facile per lui prescrivere la cura, farmaco o
ricovero che sia.
Così facendo la sua coscienza di medico, educata a far questo, ne esce salva.
Solo in parte però!
Perché,
se anche volessimo considerare solo il famoso rapporto costo- beneficio di un
intervento sanitario, ci accorgeremmo che il medico in questione non avrà fatto
altro che andare verosimilmente a gravare sulla spesa sanitaria per richieste di
ricoveri o di esami spesso impropri e, peggio, di farmaci inutili.
Quando invece, il dedicare parte del proprio tempo all’ascolto e alla raccolta
dei dati anamnestici (la storia del paziente consente spesso di arrivare alla
formulazione di una diagnosi di presunzione corretta), avrebbe dato più
soddisfazione al paziente e sicuramente contribuito a contenere la spesa
sanitaria. Non è facile, torno a ripeterlo ma la comunicazione tra il medico e
il paziente, e viceversa, è importantissima perché può diventare un vero
strumento di cura soprattutto se la si intende come realmente dovrebbe essere
intesa e cioè come una vera e propria relazione.
Relazione che dovrà basarsi, oltre che sull’ascolto, anche sulla corretta e
comprensibile informazione che il medico deve dare al paziente. Il medico, tanto
per capirci, non dovrà usare un linguaggio tecnico e scientifico, non deve
parlare ex cathedra, perché il malato in tal caso uscirebbe dall’ambulatorio
solo frastornato, confuso e scontento; piuttosto deve usare un linguaggio
facilmente comprensibile, accessibile, che aiuti a abbattere ulteriormente le
distanze dei ruoli: quello del medico da una parte, quello del malato
dall’altra.
A proposito di ruoli, varrà subito la pena precisare che questi non sono
definitivi bensì intercambiabili e che, prima o poi, anche l’uomo medico può
diventare uomo-paziente, così come un giovane paziente può innamorarsi della
medicina e diventare medico.
E’ un’empatia vera e propria che si deve creare e, per comunicare veramente,
l’empatia passa anche attraverso l’abbattimento di tutte le difese che il medico
erige attorno a sé; a cominciare spesso proprio dal linguaggio incomprensibile
ai più, che danno molta soggezione a chi li ascolta … e mantengono le distanze.
A questo punto vorrei ricollegarmi a un altro discorso: si parla spesso dell’uso
e abuso da parte di un’ utenza sempre più vasta verso la cosiddetta medicina
alternativa (in Italia sono circa 10 milioni le persone
che fanno ricorso alle medicine alternative). La spiegazione di questa fuga
dalla medicina ortodossa è verosimilmente da ricercare proprio in quello che ho
citato sin qui. I nostri medici sono, in genere, poco inclini al dialogo, non lo
cercano e sono impreparati a affrontare il caso umano; molto più semplice
trasformarlo in caso clinico e agire secondo competenze collaudate.
Viceversa i medici non dovrebbero pensare solo al trattamento della malattia ma
anche a avere un “tratto umano” con il malato.
Nell’ era dei computer e dell’informatizzazione dei dati, il medico non deve
soltanto “digitalizzare” i suoi pazienti sul proprio p.c. bensì “simpatizzare”
con loro.
Il recupero del rapporto medico paziente è dunque il primo passo da fare in una
Sanità che sempre di più, e giustamente, mira al benessere globale
dell’individuo.
Tutti noi ricordiamo la definizione dell’O.M.S. sulla Salute che viene intesa
non solo come l’assenza della malattia fisica bensì come il raggiungimento di un
completo stato di benessere psico-fisico e, anche se la Medicina moderna si
avvia sempre più verso la parcellizzazione e la settorializzazione delle
conoscenze, non bisogna dimenticare che l’ uomo, quando è malato, ha bisogno di
essere curato nella sua interezza psico-fisica.
Sta di fatto che è finita la luna di miele dell’uomo del XXI Secolo con la
Medicina dei miracoli e delle promesse, quella della tecnologia medica spinta,
dei prodigi della trapiantologia, dei meravigliosi progressi della biologia
molecolare e di quant’altro poteva apparire come la soluzione a ogni male.
Oggi la persona in buono stato di salute e che teme di ammalarsi, si preoccupa
maggiormente di come verrà trattato, del livello di informazione che gli sarà
concesso, dell’ attenzione con cui sarà ascoltato e del tempo che il medico gli
offrirà per aiutarlo anche a raccontarsi.
Negli Stati Uniti, dove maggiormente è avvertito il bisogno di una trasfusione
umanistica in grado di
correggere
l’arida ipertrofia tecnologica della Scienza Medica, esistono, a esempio, enormi
database di opere letterarie catalogate e commentate, pronte a essere
“somministrate” agli studenti da veri e propri “Departments of Medical
Humanities” presenti in quasi tutte le Facoltà mediche.
Le Medical Humanities, inoltre, non si limitano a quanto la Medicina può offrire
per la guarigione, ma sono fondamentali in ogni tipo di servizio alla salute:
dalla Psicoterapia al Servizio Sociale, dalla Prevenzione alla Medicina di
comunità. Non si rivolgono, quindi, solo ai medici, ma a tutti gli operatori
della salute (sarebbe più corretto parlare di Health Professionals Humanities).
Basti pensare alla Psicologia e alla Sociologia, alla Filosofia della Scienza,
all’Antropologia Culturale e, ovviamente, all’Etica e alla Bioetica. Inoltre,
nelle Medical Humanities, un grande contributo a una pratica più completa della
Medicina, viene dalla Letteratura e dalle Arti espressive (pittura, musica,
danza, etc...).
Tutto ciò fa ben sperare in un recupero del rapporto medico-paziente verso una
nuova alleanza terapeutica.