nella seconda guerra mondiale
Si chiamò “operazione canarino” il primo, sfortunato tentativo di un aereo
radiocomandato per attaccare i convogli navali inglesi
di Giuseppe Prunai
All’ingresso dell’Italia in guerra,
il 10 giugno 1940, le forze armate italiane non disponevano di un
armamento moderno ed efficiente. Basti dire, che era ancora in
circolazione il fucile modello ’91, cioè il fucile
Mannlicher-Carcano-Parravicino, con otturatore a catenaccio, adottato dal Regio
Esercito nel 1891. Si trattava del fucile che, con piccole modifiche, era stato
impiegato durante la guerra 1915-’18 e che, a distanza di una ventina d’anni,
con altrettante modifiche per alleggerirlo, veniva nuovamente
utilizzato
dalla fanteria. Da questo derivò il moschetto 91-38, con baionetta incorporata,
destinato per lo più a reparti d’assalto, come i Bersaglieri, o a reparti
preposti all’ordine pubblico: Carabinieri, Pubblica Sicurezza e Guardia di
Finanza.
I fucili a ripetizione semiautomatici (tipo pistola) e i fucili mitragliatori
erano di là da venire. Il primo mitra, quello con le canne bucherellate per il
raffreddamento, e con due grilletti (uno per li colpo singolo, l’altro per la
raffica) furono distribuiti ad alcuni reparti verso la metà del 1942.
Ne fu realizzato un numero limitato di esemplari e, si dice, che ci fosse
solo un’arma di questo tipo per ogni pattuglia. Solo poco prima dell’8 settembre
1943, ne fu incrementata la produzione e la
diffusione. Si trattava di un mitra non privo di difetti, fra i quali
quello di incepparsi con estrema
facilità.
Non stava meglio la Regia Aeronautica, dotata di aerei di vecchia concezione,
male armati e poco veloci. Una voce
maligna affermava che i nostri caccia scampavano alla contraerea inglese in Nord
Africa perché le tabelle di tiro della difesa aerea albionica non contemplavano
velocità così basse e i proiettili sparati da terra esplodevano dinanzi al
velivolo senza danneggiarlo.
Soprattutto, era esiguo il numero dei bombardieri con i quali contrastare i
convogli navali diretti alle basi inglese nel Mediterraneo. I dispositivi di
puntamento erano estremamente imprecisi per colpire con le
bombe le varie navi ed un bombardamento a tappeto era impensabile perché il
numero di ordigni disponibile era
quanto mai esiguo.
C’è da chiedersi come si pretendesse di fare una guerra in queste condizioni, ma
questo è un altro discorso.
Mentre tutti si lambiccavano il cervello per trovare il modo di bloccare il
flusso di rifornimenti alle basi inglesi, il 18 luglio 1940, l’allora colonnello
dell’aeronautica Ferdinando Raffaelli (foto a destra) propose allo stato
maggiore di realizzare un velivolo radiocomandato da far schiantare sulle navi
nemiche facendo esplodere una o due bombe di grande potenza.
Quali i vantaggi di un simile sistema?
Il primo era quello di infliggere notevoli danni al nemico; il secondo
era quello di aumentare il raggio d’azione di un velivolo perché, non essendo
previsto il viaggio di ritorno, avrebbe potuto impiegare tutto il carburante per
raggiungere anche un obiettivo lontano. Inoltre, non si sarebbe messa a rischio
la vita dei piloti e si sarebbero potuto impiegare aerei ormai dismessi o in via
di dismissione.
Accettata la proposta, iniziarono a breve le sperimentazioni dell’ ARP (aereo
radio pilotato) presso il centro sperimentale di Guidonia, vicino Roma.
Per semplicità, fu deciso di far decollare l’aereo con un pilota a bordo che poi
si sarebbe lanciato con il paracadute. A questo scopo, nel ventre della carlinga
fu realizzata una botola di uscita che, dopo il lancio, si richiudeva per
effetto di due grossi elastici. Dopo il lancio, l’ARP veniva preso in carico da
un altro S 79 munito delle apparecchiature trasmittenti, il cosiddetto aereo P,
che si manteneva a distanza e in quota di sicurezza.
Per
gli esperimenti, furono messi a disposizione due Savoia Marchetti S 79,
denominato “Sparviero”, più noto come il “Gobbo maledetto” (foto a sinistra). Si
trattava di un trimotore ad ala bassa, inizialmente progettato come aereo da
trasporto civile. Negli anni ’37-’39 stabilì 26 record mondiali e fu, per un
certo periodo, il più veloce medio bombardiere del mondo. Era realizzato in legno,
tela e metallo. Il suo primo impiego bellico risale alla guerra di Spagna. Aveva
una lunghezza di 15,625 metri, un’altezza di 4,60 metri ed un’apertura alare di
21,20 metri, mentre la superficie alare era di 61,70 m2. Pesava a
vuoto 6.945 kg, a pieno carico 10.725 kg.
Era dotato di tre motori radiali Alfa Romeo della potenza di 78° CV
ciascuno. La velocità massima era di 430 km/h, l’autonomia da 1.900 a 2.300 km,
la tangenza era di 6.300 m.
Si è ironizzato molto, a guerra finita, su quelle ali di tela, del resto
abbastanza diffuse sugli aerei degli anni 30. Tutti ricorderanno la gag di Paolo
Villaggio con il personaggio di Fantozzi in ferie sul Savoia Marchetti con le
ali di tela.
“Per fortuna che le ali erano di tela, - mi disse un giorno il generale di
squadra aerea Giulio Cesare Graziani, già comandante di S 79, incontrato
casualmente ad un convegno (nella foto sotto a destra).
“In volo su Alessandria d’Egitto con un
S 79, ho preso una cannonata da una corazzata inglese: il proiettile ha fatto
uno buco di un metro quadrato in un’ala ed è passato da parte a parte senza
esplodere. Se l’ala fosse stata di lamierino, non sarei qui a raccontarla!”
Sull’aereo di comando, il cosiddetto aereo P, fu installata una seconda cloche –
una sorta di joistik – manovrando la quale si inviavano impulsi radio all’ARP
che venivano captati da un ricevitore radio a bordo dell’ARP.
Il trasmettitore era un 320/Ter, il ricevitore un RA-18, entrambi modificati per
poter lavorare su frequenze comprese fra i 300 e i 2000 mHz. Per quante ricerche
abbiamo fatto, non siamo riusciti a trovare traccia del trasmettitore 320/Ter.
Quanto al ricevitore, da tutti indicato come un RA-18, pensiamo ad un errore
iniziale, poi ripetuto dagli autori successivi. Non c’è traccia di un ricevitore
RA-18, bensì di una radio militare AR-18, realizzata dalla Ducati di Bologna.
Aveva due gamme di onda media con copertura da 200 a 520 kHz e sei di onda corta
con copertura da 0,7 a 22 MHz. Per
quei tempi, era un gioiellino di tecnologia. Il cambio di gamma era affidato ad
un tamburo rotante. Purtroppo, non era molto selettivo: la mancanza di uno
stadio di amplificazione ad alta frequenza, rendeva praticamente nulla la
reiezione alla frequenza immagine. Quest’apparato, opportunamente modificato, è
stato il cavallo di battaglia di gran parte dei radioamatori italiani nel
dopoguerra.
Anche il ricevitore dell’ARP era stato modificato e schermato per evitare che
segnali estranei dessero informazioni errate ai servocomandi.
Finalmente, nel maggio 1942, il debutto. ARP e P furono trasferiti all’aeroporto
di Trunconi, presso
Villacidro,
vicino Cagliari. Il 12 agosto, il decollo. L’ARP era stato dipinto di giallo
perché fosse sempre ben visibile da P, da qui la denominazione di “operazione
canarino”.
Ma qui conviene riprodurre quanto scrisse, in un suo libro, l’allora colonnello
Raffaelli:
"La
partenza avvenne poco dopo le 13 del 12 agosto: raggiunta la quota stabilita di
2000 metri, il pilota dell'S. 79, mar. Mario Badii, si lanciava regolarmente sul
campo stesso di Villacidro; il Cant Z 1007 Bis (equipaggio: gen. Faffaelli, ten.
Rospigliosi, mar. Palmieri, 1° av.mot.. Monticelli) che ormai aveva assunto
l'A.R.P. in teleguida, lo seguiva a breve distanza mentre i G. 50 della scorta
decollavano. Dopo il lancio la piccola formazione si dirigeva su Elmas, sulla
cui verticale dovevano aggregarsi i due RE 2001 con bombe: ma questi si erano
già diretti verso l'obbiettivo. ...
Lasciato il cielo
di Elmas, fu raggiunto Capo Pula, punto prestabilito d'inizio della navigazione,
cercando ancora, con un ampio giro, sempre alla quota di 2000 m, di raccogliere
vari cacciatori.
Riuscito vano
anche questo tentativo - e tenuto conto anche della limitata autonomia di cui
disponevano ormai i due G. 50 aggregatisi - la strana e minuscola formazione si
poneva in rotta verso l'obiettivo; tanto viva era, malgrado tutto, la speranza
di poter violare la cintura di protezione della caccia nemica.
L'attacco era
stato previsto con direttrice da S a N dopo un avvicinamento che, contornando da
Est l'isoletta della Galite, avrebbe condotto gli aerei a Sud del convoglio, la
cui posizione, segnalata dalla ricognizione, risultava a 10 miglia a Ovest del
meridiano dell'isoletta. Tale direttrice (vedi cartina qui sotto, a destra)
era consigliata da
ragioni di visibilità e da considerazioni relative agli altri attacchi
concomitanti. Fino alla vicinanza della Galite, il telecomando funzionò
egregiamente; ma quando già i contorni dell'isola cominciavano a stagliarsi
nitidamente all'orizzonte, improvvisamente l'aereo telecomandato cessò di
eseguire i comandi trasmessigli, sia nel piano orizzontale che in quello
verticale; il volo proseguiva stabilissimo - salvo una lieve precessione verso
destra - rivelando con ciò l'efficienza di tutti gli organi del velivolo,
compreso l'autopilota, ma i ripetuti vani tentativi di comandare sia la rotta
che la quota denunciarono ben presto una avaria nel complesso trasmittente, ove
il dielettrico di un condensatore si era bruciato senza possibilità di
sostituzione in volo.
Avaria mai verificatasi nel corso delle precedenti numerose prove ed ascrivibile
a due cause: il materiale autarchico comparso negli apparati recentemente
sostituiti ed il prolungato funzionamento continuativo richiesto al
trasmettitore durante i vari, quanto vani, giri di attesa della caccia di cui
sopra.
Non rimase che
seguire per un certo tratto l'S.79, mentre ogni provvedimento veniva tentato per
riattivare il trasmettitore: appena superata la Galite i due G. 50 di scorta
venivano intanto posti in libertà col segnale convenuto, per non farli trovare
in difficoltà di carburante in pieno mare.
Superata la
fascia costiera algerina ed accertata dal marconista l'impossibilità di porre
riparo all'avaria, l'S 79 fu abbandonato alla sua sorte, lasciandolo proseguire
- ormai autonomo - verso la zona desertica dell'interno. Il ritorno del Cant Z
1000 bis, a volo radente, ebbe luogo senza avvenimenti degni di nota”.
Fu
ipotizzato il guasto di un condensatore
fisso con dielettrico di carta. Perché, in quel tempo, le forze
armate
italiane, oltre alle scarpe di cartone, avevano anche apparati radio con
condensatori a carta!
L’ S 79, continuò
il suo volo fino schiantarsi su monti a Sud Ovest di Khenchela, in Algeria. Le
autorità locali, furono impressionate dal fatto che non fu trovato alcuni resto
dell’equipaggio. Circostanza che fu attribuita all’esplosione e all’incendio.
L’équipe di
Raffaelli non si arrese e proseguì studi, ricerche e prove che si orientarono
verso aerei più piccoli, ovviamente di legno e tela, commissionata all’
“Aeronautica Lombarda” di Cantù. I primi velivoli furono pronti nell’agosto del
1943. Ma il successivo 8 settembre, quando si stavano preparando i piani per un
attacco alle navi alleate avvistate tra Salerno e Ischia, arrivò la notizia
dell’armistizio. Al padre del Drone italiano, non restò che distruggere
apparecchiature e documentazione.