Satelliti, meteoriti, detriti spaziali,
mobilità degli spazi aerei anche sopra le città:
gli interessanti studi del Campus universitario di Forlì
Una visita dei soci UGIS (Unione giornalisti italiani scientifici) al polo
universitario della città romagnola
di Valeria Fieramonte
Sebbene l’aeroporto di Forlì sia stato fondato nel 1936 in piena epoca
mussoliniana - Predappio è a pochi km di distanza – non ci si aspetterebbe di
trovare nella città, a distanza di quasi 90 anni, un intero campus universitario
così ben attrezzato per lo studio del volo, delle tecnologie adatte
all’esplorazione dello spazio, dei satelliti, del contenimento della spazzatura
spaziale, ormai diventata un vero problema, e persino del contrasto di eventuali
impatti cometari.
La diffusione dei satelliti in miniatura è ormai quasi a rischio di una
proliferazione fuori controllo: da 296 che erano nel 2020, si prevede per il
2030, cioè in soli dieci anni, che saranno circa 1390, con una massa media per
satellite di circa 116 kg. Il sistema di propulsione che serve a mandarli in
orbita e a farli funzionare è molto energivoro, ci vuole una potenza elettrica
anche di 50GW, quasi come il consumo giornaliero di un intero Stato come
l’Italia. Ma sia gli Stati che le imprese private sono sempre più interessate al
loro utilizzo per fini di controllo e ricognizione sui territori e sul mare.
Dopo circa 25 anni di uso per i
satelliti restano solo due strade: o farli cadere, evitando che ci cadano in
testa, oppure andare in orbita con un robottino ‘benzinaio’ che ne restauri la
funzionalità. Come? Si pensa di rifornire i satelliti con cartucce di iodio
solido ricaricabili e sostituibili. Di questo ha parlato soprattutto
Fabrizio Ponti, ordinario di
propulsione aerospaziale all’Alma Mater, il bel nome dell’università di Bologna,
in conferenza presso l’ENAV
Training Center di Forlì.
L’ingegner Dario Modenini,
impianti e sistemi aerospaziali, si è soffermato invece sul problema del
traffico spaziale e rischi connessi. Per ora ci sono stati pochi incidenti, ma
nel 2009, per esempio, c’è stata
una collisione tra i due sat. Iridium e Kosmos che si sono scontrati a una
velocità di oltre 10km al secondo.
« Il problema dei detriti è che non
rimangono dove sono, ha detto il professore, ma si estendono via via nel tempo
allargando l’area di rischio nelle orbite satellitari, fino a produrre quella
che viene definita dagli esperti ‘Sindrome di Kessler’, ovvero un meccanismo di
collisione a cascata di detriti sempre più piccoli».
Alla lunga questo farà diventare insostenibili le attività spaziali in
orbita bassa, aumentando anche i costi energetici.
Nel 2023 è stato costituito l’Autonomous Board for Avoiding Collisions (ABACO),
dovrebbe servire a mitigare il rischio di collisioni, e speriamo che la cosa
funzioni. Per ora c’è solo il sistema di tracciamento globale degli U.S.A., ma
gli avvisi viaggiano ancora via mail…
Il Campus lavora anche su progetti come la difesa planetaria, ovvero su come
evitare un eventuale impatto di asteroidi sul nostro pianeta. L’ipotesi è
remotissima, perché in genere i bolidi che cadono nello spazio sono di pochi
metri, ma non si deve dimenticare che nel 2013 a Chelyabinsk, in Siberia, un
pietrone di soli 20 metri di diametro ha sviluppato 500 kilotoni di energia, (e
pare che non ci siano stati morti ma solo vastissimi incendi e distruzioni solo
perché la zona era disabitata), né che il meteorite
che ha causato l’estinzione dei dinosauri e l’arrostimento della
superficie terrestre circa 60 milioni di anni fa non superava di molto i 10km di
diametro, e che anche una meteora
di 1 solo km può portare a una devastazione globale. Dunque meglio preoccuparsi
per tempo: spostare la direzione di
una cometa è pur sempre un’impresa possibile ma titanica.
Durante gli anni le varie agenzie spaziali hanno pianificato diverse missioni,
in particolare la NASA DART (Double Asteroid Redirect Test) aveva come obiettivo
di fare un impatto controllato contro l’asteroide Dimorphos per testare
tecnologie volte a deviare traiettorie pericolose per il nostro pianeta. La
missione ESA Hera ora studierà gli effetti dell’impatto sul lungo periodo, e
speriamo bene perché, vista da qui, la sparatoria spaziale sembra che gli abbia
fatto poco più del solletico...
Infine nel campus studiano anche come sviluppare e potenziare la mobilità aerea
urbana.
Dato che qualsiasi oggetto che vola può diventare anche un’arma, l’argomento si
presta a accese discussioni, ma hanno già dato un nome agli hub che dovrebbero
ospitare gli aeromobili: si
chiamano vertiporti e dovrebbero essere in relazione con gli aeroporti
tradizionali. Ovvio che non si può pensare a un traffico come quello su strada,
perché sarebbe difficile da governare e soprattutto pericoloso in caso di
incidente, dato che i velivoli cadrebbero in spazi abitati.
Saranno oggetti meno ingombranti degli elicotteri, peraltro nati 50 anni dopo la
nascita degli aeroplani. Dei droni, per esempio, senza pilota con traiettorie
fisse e l’obbligo di essere sempre visibili al sistema: resta il fatto che allo
stato attuale i droni, anche senza pilota , hanno un costo di manutenzione
maggiore degli elicotteri e che con il mondo dell’aviazione non c’entrano nulla,
non sono una tecnologia aeronautica ma nascono da sistemi di gioco e di consumo,
vengono da un mondo legato all’aeromodellismo e ancora non si sa quanto costerà
anche solo un’ora di volo.
Considerato quanto costano i taxi normali non saranno una tech. da uso di massa,
per fortuna.
Il solito Elon sta comunque progettando, nei
laboratori di Space X, un prototipo di auto che vola, e potrebbe come sua
abitudine anche riuscirci…
L’ingegnera Francesca De Crescenzio,
Dipartimento di Ingegneria industriale, ci ha portato a vedere un
laboratorio per lo studio della realtà virtuale (VR), della realtà aumentata(AR)
e della realtà mescolata(Mixed reality, MR) e.. ‘può darsi anche qualcosa
di più’, c’era scritto in sovraimpressione da qualche parte, ma purtroppo non
c’è stato il tempo di provare i vari attrezzi dedicati. Ora stanno cercando di
simulare come è probabile diventi o sembri la mobilità aerea urbana…
Infine Gabriele Bellani, professore
di fluidodinamica ha raccontato, anche a noi giornalisti UGIS, presenti con
studenti e autorità nel grande spazio ENAV dedicato ai dibattiti e alle
conferenze, qualcosa di molto interessante circa il funzionamento dei fluidi.
Oltre il 50% del carburante consumato dagli aerei è dovuto alla resistenza da
attrito. Sulle ali e la fusoliera di un aereo in movimento si forma una
turbolenza che produce moti caotici tramite un sottile strato di ‘fluido’
generato dal volo. Nelle ex officine Caproni di Predappio c’è un laboratorio che
si chiama Ciclope che è una specie di microscopio per lo studio di questo genere
di turbolenze.
Studiando la pelle degli squali si è capito che nell’acqua questo genere di
pelle riduce la resistenza fino al 10% e si è dunque tentato di imitarla in modo
sintetico. Sugli aerei della Lufthansa, per esempio, ci sono superfici ispirate
alla pelle degli squali: ebbene, per ogni aereo si produce, con queste nuove
superfici, un risparmio di carburante di 300 tonnellate all’anno.
Una versione ancora più tecnologizzata della pelle dello squalo potrebbe ridurre
l’attrito anche fino al 30%. Comunque per migliorare le prestazioni ci vorranno
anni di studi nella galleria del vento di Ciclope, che pare sia una delle meglio
attrezzate del mondo per questo genere di problemi.
Per quanto riguarda invece il problema dei problemi, cioè il cambiamento
climatico e i rischi correlati, si sa che il settore dell’aviazione – ora anche
in espansione dopo il blocco della maggior parte dei voli dovuto al Covid - è
tra i più energivori del pianeta e questo segnala delle criticità. L’ENAV
tuttavia si colloca all’interno del 14% di aziende
che più hanno fatto per ridurre l’impatto sull’ambiente delle tecnologie
usate ed è diventato un punto di riferimento internazionale per la valutazione
delle performance ambientali: non resta dunque che augurare buon lavoro a questa
bella e ben organizzata realtà tecnologica italiana.