25 aprile: l’altra Resistenza

Il sacrificio degli IMI

privò i repubblichini

di un esercito

di tutto rispetto

 

di Giuseppe Prunai

Quando ascolto l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana non riesco a trattenere le lacrime. Questo struggente brano di Pietro Mascagni era  la sigla di una trasmissione di Radio Monte Ceneri (Svizzera italiana) nel corso della quale venivano letti i nomi dei militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre. Era la Croce rossa internazionale a fornire gli elenchi anche se i militari italiani non vennero considerati prigionieri di guerra dai tedeschi, ma Internati militari italiani (IMI, Italienische Militärinternierte, appunto) per punirli di aver cacciato Mussolini e di aver fatto la pace separata con gli alleati. Agli IMI, in quanto non prigionieri di guerra, fu negata l’assistenza della Croce rossa. Analogo trattamento fu riservato ai prigionieri russi e francesi.

Quanti erano i militari italiani catturati? Si stima fossero circa 650mila, ma secondo alcuni storici tedeschi sarebbero stati molti di più: 800mila e passa. Esistono solo stime perché il nostro ministero della difesa vergognosamente non ha mai provveduto ad un censimento. Anzi, molti governi hanno tentato di passare sotto silenzio il capitolo IMI in omaggio ad una presunta amicizia con la Germania federale, erede della barbarie nazista. Un atteggiamento caldeggiato da molti presidenti del consiglio, da De Gasperi a Spadolini.

Come già detto, ai militari italiani fu negato lo status di prigionieri di guerra così non poterono essere assistiti dalla Croce Rossa Internazionale. Il progetto era quello di far aderire gli IMI alla Repubblica sociale di Mussolini, in subordine alle SS. Accettarono solo in poco meno di 50mila, gli altri 600mila rifiutarono. Se avessero aderito in massa, un esercito così numeroso avrebbe, non dico sovvertito le sorti del conflitto, ma ne avrebbe ritardata di diversi mesi, forse anni, la conclusione.

Questa circostanza indusse Alessandro Natta, anche lui IMI, a scrivere un libro sulla sua esperienza che intitolò “L’altra Resistenza”. La vicenda degli IMI fu riscoperta grazie al presidente Pertini che insignì tutti gli ex internati del diploma di Combattente per la libertà.

La trasmissione di Radio Monte Ceneri andava in onda verso le 20.00 ed io e la mamma, rimasti soli nella natìa Siena, l’ascoltavamo ogni sera con una vecchia radio Magnadyne, cinque valvole più occhio magico, cioè l’indicatore elettronico di sintonia. Quando il governo repubblichino impose il blocco di tutte le radio su un’unica stazione italiana, ovviamente non del Sud dove si era trasferito il Regno d’Italia, la mamma aveva imparato ad introdurre da un foro di areazione del pannello posteriore della radio un lungo cacciavite con il quale riusciva a modificare la sintonia per ascoltare la radio svizzera e Radio Londra. Dopo alcune settimane di trasmissione, finalmente fu letto il nome di mio padre, ufficiale di marina di complemento, catturato nella base di Tolone, nella Francia occupata. Di lì a poco arrivò a casa una cartolina militare tedesca con la quale il babbo ci diceva di star bene e di essere in Polonia, a Deblin, dove il gruppo degli italiani in Francia era stato trasferito, dopo un breve soggiorno in Olanda dove a mio padre rubarono il cappotto. A Deblin, il comando tedesco del campo gli assegnò un cappotto da marinaio polacco.

Un capitolo a parte merita il trattamento alimentare riservato agli IM; pane fatto con farina di faggio, cioè segatura, qualche patata, qualche raro brandello di  carne andata a male. Mio padre chiamò questi pasti “la sboba” che in vernacolo senese indica il pastone delle galline. “La sboba” è anche il titolo del suo diario, recentemente pubblicato.

Ma mano che i sovietici avanzavano, gli IMI vennero trasferiti in Germania, molti a Sandbostel, mio padre a Wietzendorf, nel nord del paese. Era in buona compagnia: in quel campo c’erano Alessandro Natta, Giovannino Guareschi, Gianrico Tedeschi, Luigi Fiorentino, Silvio Golzio, poi presidente dell’Associazione bancaria italiana.

A Wietzendorf, Oflager 83, erano internati circa 6.000 militari italiani. Mio padre era uno di questi ed ecco come l’ internierte – Nummer 30067 XIII C D. descrive nel suo diario di prigionia l’ Off Lager 83, Wietzendorf Kr. Soltau:

“ Il campo di Wietzendorf è composto di quattro settori indicati con le lettere A1, A2, B1, B2. In ciascuno di essi si trovano quattro grosse baracche, due da una parte e due dall’altra, dirimpettaie. Ogni baracca è composta da sei Stuben (camerate). Ogni camerata ha la porta e la finestra sul davanti; accanto alla porta, almeno alla nostra, vi è un vano in cui è sistemato un gabinetto notturno; sul dietro vi è un’altra finestra. Ogni baracca costituisce un blocco; il nostro è il blocco ottavo e siamo nella Stube 5°. Dentro vi sono numerosi castelli biposto e costruiti in modo che siano uniti quattro posti letto. (omissis) Il gabinetto notturno è molto rudimentale, un tinozzo di legno con sopra una specie di condotto”.

(omissis)

“Agli angoli del campo le solite torrette delle sentinelle”. (Giulio Prunai: La sboba, diario dell’internato militare n. 30067 dall’8 settembre 1943 al 5 settembre 1945; Edizioni Polistampa.)

Finalmente, nell’aprile 1945, la liberazione da parte degli inglesi quando le SS avevano piazzato le mitragliatrici ai bordi del campo per dar luogo alla “soluzione finale”, l’uccisione di tutti gli IMI, scomodi testimoni  della barbarie nazista.

All’apparire di un carro armato inglese, le SS che si apprestavano ad assassinare gli IMI, fuggirono. I militari erano salvi e, finalmente, liberi!

Per disinfestare le baracche del campo, in pessime  condizioni igieniche, gli inglesi trasferirono gli IMI nel villaggio di Wietzendorf dal quale sloggiarono gli abitanti. L’episodio non è nel diario, ma mio padre me lo raccontò a voce. Fu destinato alla casa colonica del signor Oier che, quando lo vide ridotto pelle e ossa, gli offrì un bicchierino di rum. Nella stalla c’era una bascula, mio padre vi salì: pesava 33 chili!

Nell’abitazione il mio “babbo” trovò una carrozzina per le bambole. Era un giocattolo, ma era molto… tedesco, molto robusto e mio padre vi sistemò i suoi bagagli. In quella, una bambina cominciò a piangere e a strillare: “Puppenwagen nein! Puppenwagen nein! La carrozzina delle bambole no!” Allora mio padre tolse i suoi bagagli dalla carrozzina e la dette alla bambina con una  carezza alla quale lei rispose con un bacio su una guancia del babbo.

Mio padre era molto riservato dei propri sentimenti, ma quando raccontava l’episodio gli brillava una lacrima in un occhio.

Il ritorno in Italia fu una vera e propria odissea perché nessuno si fece carico del rimpatrio degli IMI.  Tutti puntarono su Friburgo e poi tentarono di arrivare in Italia attraverso la Svizzera, ma la confederazione, che mesi prima aveva concesso il transito all’esercito tedesco in armi, lo negò agli IMI. Vien da esclamare, come gli anarchici di inizi ‘900: “repubblica borghese un dì ne avrai vergogna e ne risponderai in faccia all’avvenire!” Agli IMI non restò che attraversare la Foresta Nera,  raggiungere il Brennero e poi le località di residenza con i pochi treni e autobus di linea funzionanti. Mio padre, arrivato a Firenze in treno, tappa finale di un  foglio di viaggio di un comando militare italiano,  per raggiungere Siena, dove abitava allora, dovette pagare il biglietto dell’autobus della SITA con i pochissimi soldi che aveva in tasca!

Per me e mia madre la guerra finì quel giorno, ma è rimasto il ricordo indelebile di tante atrocità, di tanti patimenti da parte degli IMI e dei loro parenti rimasti in Italia, spesso senza mezzi di sussistenza. Un ricordo di troppe cose molto difficile perdonare!

Il Galileo

 

 

 

, arrivò