Il sacrificio degli IMI
privò i repubblichini
di un esercito
di tutto rispetto
di Giuseppe Prunai
Quando ascolto l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana non riesco a trattenere
le lacrime. Questo struggente brano di Pietro Mascagni era
la sigla di una trasmissione di Radio Monte Ceneri (Svizzera italiana)
nel corso della quale venivano letti i nomi dei militari italiani catturati dai
tedeschi dopo l’8 settembre. Era la Croce rossa internazionale a fornire gli
elenchi anche se i militari italiani non vennero considerati prigionieri di
guerra dai tedeschi, ma Internati militari italiani (IMI,
Italienische Militärinternierte, appunto) per punirli di aver cacciato
Mussolini e di aver fatto la pace separata con gli alleati. Agli IMI, in quanto
non prigionieri di guerra, fu negata l’assistenza della Croce rossa. Analogo
trattamento fu riservato ai prigionieri russi e francesi.
Quanti erano i militari italiani catturati? Si stima fossero circa 650mila, ma
secondo alcuni storici tedeschi sarebbero stati molti di più: 800mila e passa.
Esistono solo stime perché il nostro ministero della difesa vergognosamente non
ha mai provveduto ad un censimento. Anzi, molti governi hanno tentato di passare
sotto silenzio il capitolo IMI in omaggio ad una presunta amicizia con la
Germania federale, erede della barbarie nazista. Un atteggiamento caldeggiato da
molti presidenti del consiglio, da De Gasperi a Spadolini.
Come già detto, ai militari italiani fu negato lo status di prigionieri di
guerra così non poterono essere assistiti dalla Croce Rossa Internazionale. Il
progetto era quello di far aderire gli IMI alla Repubblica sociale di Mussolini,
in subordine alle SS. Accettarono solo in poco meno di 50mila, gli altri 600mila
rifiutarono. Se avessero aderito in massa, un esercito così numeroso avrebbe,
non dico sovvertito le sorti del conflitto, ma ne avrebbe ritardata di diversi
mesi, forse anni, la conclusione.
Questa circostanza indusse Alessandro Natta, anche lui IMI, a scrivere un libro
sulla sua esperienza che intitolò “L’altra Resistenza”. La vicenda degli IMI fu
riscoperta grazie al presidente Pertini che insignì tutti gli ex internati del
diploma di Combattente per la libertà.
La trasmissione di Radio Monte Ceneri andava in onda verso le 20.00 ed io e la
mamma, rimasti soli nella natìa Siena, l’ascoltavamo ogni sera con una vecchia
radio Magnadyne, cinque valvole più occhio magico, cioè l’indicatore elettronico
di sintonia. Quando il governo repubblichino impose il blocco di tutte le radio
su un’unica stazione italiana, ovviamente non del Sud dove si era trasferito il
Regno d’Italia, la mamma aveva imparato ad introdurre da un foro di areazione
del pannello posteriore della radio un lungo cacciavite con il quale riusciva a
modificare la sintonia per ascoltare la radio svizzera e Radio Londra. Dopo
alcune settimane di trasmissione, finalmente fu letto il nome di mio padre,
ufficiale di marina di complemento, catturato nella base di Tolone, nella
Francia occupata. Di lì a poco arrivò a casa una cartolina militare tedesca con
la quale il babbo ci diceva di star bene e di essere in Polonia, a Deblin, dove
il gruppo degli italiani in Francia era stato trasferito, dopo un breve
soggiorno in Olanda dove a mio padre rubarono il cappotto. A Deblin, il comando
tedesco del campo gli assegnò un cappotto da marinaio polacco.
Un capitolo a parte merita il trattamento alimentare riservato agli IM; pane
fatto con farina di faggio, cioè segatura, qualche patata, qualche raro
brandello di carne andata a male.
Mio padre chiamò questi pasti “la sboba” che in vernacolo senese indica il
pastone delle galline. “La sboba” è anche il titolo del suo diario, recentemente
pubblicato.
Ma mano che i sovietici avanzavano, gli IMI vennero trasferiti in Germania,
molti a Sandbostel, mio padre a Wietzendorf, nel nord del paese. Era in buona
compagnia: in quel campo c’erano Alessandro Natta, Giovannino Guareschi,
Gianrico Tedeschi, Luigi Fiorentino, Silvio Golzio, poi presidente
dell’Associazione bancaria italiana.
A Wietzendorf, Oflager 83, erano internati circa 6.000 militari italiani. Mio
padre era uno di questi ed ecco come l’ internierte – Nummer 30067 XIII C D.
descrive nel suo diario di prigionia l’ Off Lager 83, Wietzendorf Kr. Soltau:
“ Il campo di Wietzendorf è composto di quattro settori indicati con le lettere
A1, A2, B1, B2. In ciascuno di essi si trovano quattro grosse baracche, due da
una parte e due dall’altra, dirimpettaie. Ogni baracca è composta da sei Stuben
(camerate). Ogni camerata ha la porta e la finestra sul davanti; accanto alla
porta, almeno alla nostra, vi è un vano in cui è sistemato un gabinetto
notturno; sul dietro vi è un’altra finestra. Ogni baracca costituisce un blocco;
il nostro è il blocco ottavo e siamo nella Stube 5°. Dentro vi sono numerosi
castelli biposto e costruiti in modo che siano uniti quattro posti letto.
(omissis) Il gabinetto notturno è molto
rudimentale, un tinozzo di legno con sopra una specie di condotto”.
(omissis)
“Agli angoli del campo le solite torrette delle sentinelle”.
(Giulio Prunai: La sboba, diario dell’internato militare n. 30067 dall’8
settembre 1943 al 5 settembre 1945; Edizioni Polistampa.)
Finalmente, nell’aprile 1945, la liberazione da parte degli inglesi quando le SS
avevano piazzato le mitragliatrici ai bordi del campo per dar luogo alla
“soluzione finale”, l’uccisione di tutti gli IMI, scomodi testimoni
della barbarie nazista.
All’apparire di un carro armato inglese, le SS che si apprestavano ad
assassinare gli IMI, fuggirono. I militari erano salvi e, finalmente, liberi!
Per disinfestare le baracche del campo, in pessime
condizioni igieniche, gli inglesi trasferirono gli IMI nel villaggio di
Wietzendorf dal quale sloggiarono gli abitanti. L’episodio non è nel diario, ma
mio padre me lo raccontò a voce. Fu destinato alla casa colonica del signor Oier
che, quando lo vide ridotto pelle e ossa, gli offrì un bicchierino di rum. Nella
stalla c’era una bascula, mio padre vi salì: pesava 33 chili!
Nell’abitazione il mio “babbo” trovò una carrozzina per le bambole. Era un
giocattolo, ma era molto… tedesco, molto robusto e mio padre vi sistemò i suoi
bagagli. In quella, una bambina cominciò a piangere e a strillare: “Puppenwagen
nein! Puppenwagen nein! La carrozzina delle bambole no!” Allora mio padre tolse
i suoi bagagli dalla carrozzina e la dette alla bambina con una
carezza alla quale lei rispose con un bacio su una guancia del babbo.
Mio padre era molto riservato dei propri sentimenti, ma quando raccontava
l’episodio gli brillava una lacrima in un occhio.
Il ritorno in Italia fu una vera e propria odissea perché nessuno si fece carico
del rimpatrio degli IMI. Tutti
puntarono su Friburgo e poi tentarono di arrivare in Italia attraverso la
Svizzera, ma la confederazione, che mesi prima aveva concesso il transito
all’esercito tedesco in armi, lo negò agli IMI. Vien da esclamare, come gli
anarchici di inizi ‘900: “repubblica borghese un dì ne avrai vergogna e ne
risponderai in faccia all’avvenire!” Agli IMI non restò che attraversare la
Foresta Nera, raggiungere il Brennero e
poi le località di residenza con i pochi treni e autobus di linea funzionanti.
Mio padre, arrivato a Firenze in treno, tappa finale di un
foglio di viaggio di un comando militare italiano,
per raggiungere Siena, dove abitava
allora, dovette pagare il biglietto dell’autobus della SITA con i pochissimi
soldi che aveva in tasca!
Per me e mia madre la guerra finì quel giorno, ma è rimasto il ricordo
indelebile di tante atrocità, di tanti patimenti da parte degli IMI e dei loro
parenti rimasti in Italia, spesso senza mezzi di sussistenza. Un ricordo di
troppe cose molto difficile perdonare!
, arrivò