Bartolomeo Buscema:” Dialogo con un adolescente sull’emergenza climatica”
Il libro tratta le problematiche
scientifiche legate alla
comprensione dell’attuale emergenza climatica. In
particolare
nel testo si tratteggiano le seguenti problematiche:
1.
Affidabilità delle fonti da cui attingere informazioni concernenti il clima
globale
2. Uso
dei modelli matematici di previsione
3.
Approccio scientifico ai problemi climatici
e correlazione tra uso
dell’energia, clima e scelte che la società fa nel suo complesso.
4. Che
cosa ciascuno di noi può fare per
prendersi cura della Terra
5.
L’importanza di una corretta informazione che apra la via alla consapevolezza.
E’ un testo, indirizzato ai giovani, scritto in forma dialogica che si presta
anche per una rappresentazione teatrale. Il linguaggio è semplice pur trattando
di argomenti di una certa complessità. E’ un concentrato d’informazioni
scientifiche pensato soprattutto per stimolare il lettore a porsi domande che
sono un preludio per successivi approfondimenti.
INTRODUZIONE
Il clima sta cambiando? Non è facile dare una risposta, perché lo studio del
clima e dei cambiamenti climatici a breve-medio termine è materia difficile e
complessa. Proprio per tale peculiarità ho ritenuto opportuno adottare la forma
colloquiale che più di altre si presta alla divulgazione, sebbene non nasconda
delle insidie: si rischia di formulare domande ovvie, che non stimolino le
persone a pensare e ad acquisire una capacità critica, specialmente in un ambito
così delicato come quello del cambiamento globale del clima. Jean-Jacques
Rousseau diceva che “L’arte di interrogare non è facile come si pensa. È più
arte da maestri che da discepoli.”
Conscio di tale utile avvertimento proverò a interrogarmi. Vestendo gli abiti
dell’intervistante ho cercato di immedesimarmi in un giovane adolescente con la
naturale inclinazione alla curiosità e alla voglia di conoscere. È evidente che
si tratta di una finzione letteraria. In realtà, il libro nasce dalle tante
domande che ho raccolto nella mia attività di giornalista
e divulgatore scientifico e che qui cercherò di rispondere in modo
semplice e spero non banale.
Bartolomeo Buscema è laureato al Politecnico di Milano in Ingegneria Meccanica,
ha svolto attività di progettista e direttore dei lavori nei settori delle fonti
rinnovabili e del risparmio energetico.
È stato consulente internazionale dell’IFAD (ONU) per progetti d’impianti
fotovoltaici nei Paesi in via di sviluppo. Attualmente si occupa di divulgazione
scientifica in ambito energetico-ambientale. E’ socio UGIS (Unione Giornalisti
Scientifici Italiani)
Ha pubblicato i seguenti libri:
1. B. Buscema - "Introduzione al metodo dell'analisi energetica"
(CLUP - Politecnico di Milano 1978);
2. B. Buscema et altri - Common Study on Advanced Heat Pump Systems
International Energy Agency. Parigi 1980;
3. B. Buscema et altri - Small Scale Power Generation
ENI Sogesta - Urbino 1982;
4. B. Buscema - "Divagazioni, ma non troppo, su alcuni temi dell'energia e
dell'ambiente" (Catania 1997);
5. B. Buscema - "Il clima sta cambiando?" (Roma 2008)
6. Oltre 2000 articoli scientifici e divulgativi nel settore dell'energia e
dell'ambiente.
Per la sua attività di divulgatore scientifico, nel 2008, presso la Camera dei
Deputati gli è stato conferito il Premio Nazionale per l'Ambiente "Gianfranco
Merli".
Riproponiamo la recensione di Francesco Coniglione, Professore emerito
Università di Catania, già presidente della Società Filosofica Italiana.
Chi scriva di scienza e abbia l’intenzione di farsi capire da un pubblico non
specialistico ha spesso la tentazione, allo scopo di rendersi intellegibile, di
eccessivamente semplificare e banalizzare i contenuti sovente complessi di cui
tratta; se poi vuole anche suscitare l’interesse e tenere desta l’attenzione su
tematiche che non posseggono l’attrattività del gossip giornalistico-politico,
corre anche il rischio di partire per l’iperbole, facendo diventare l’ipotesi
certezza, il rischio, catastrofe sicura, la necessità di prendere al più presto
una decisione, per l’ultima spiaggia sulla quale si decide in modo ultimativo il
destino dell’umanità. Ciò è tanto più facile che accada quando le questioni in
ballo non riguardano algidi movimenti in lontani spazi siderali, o eventi
causali nel micro mondo delle particelle elementari, ma coinvolgono la vita
degli uomini, il loro benessere, il futuro delle prossime generazioni e – ancora
più importante – incidono su interessi economici-finanziari colossali, capaci a
mobilitare risorse impensate affinché anche la scienza risulti “ubbidiente” alle
loro esigenze.
È quest’ultimo proprio il caso dell’oggetto di cui si occupa l’Autore di questo
saggio: i cambiamenti climatici generati dall’attività antropico-economica
nell’ecosistema terrestre. Ed è un merito di Bartolomeo Buscema essere riuscito,
con pacatezza ed equilibrio e col tono apparentemente dimesso di un dialogo con
un giovane, a districare e rendere intellegibile la complessità di una questione
troppo spesso affrontata o con toni catastrofisti o con intollerabile ed
irresponsabile superficialità.
Vi sono due punti che mi sembrano siano degni di nota in quanto l’autore scrive.
Innanzi tutto v’è la consapevolezza della necessaria approssimazione e
provvisorietà non solo dei modelli di previsione climatica che sottendono ogni
discussione sulla evoluzione futura del sistema eco terrestre, ma di ogni
teorizzazione scientifica. I modelli matematici utilizzati nelle previsioni
metereologiche, ad esempio, devono tener conto di una quantità enorme di fattori
ed hanno necessariamente carattere non-lineare: ogni variazione, per quanto
piccola, può incidere nel tempo con un effetto valanga, sì da provocare eventi
catastrofici anche a distanza di una settimana e in luoghi molto lontani tra
loro. Da ciò deriva il loro carattere inevitabilmente modellistico, proprio di
ogni scienza matura. Ci ricorda l’autore che «la mappa non è il territorio»,
ovvero che il modello teorico utilizzato non coincide mai perfettamente con
l’andamento reale dei fenomeni che esso descrive e che pertanto sarebbe un
errore esiziale pretendere che esso possa fornire ciò che non è assolutamente in
grado di dare: la certezza predittiva. Questa esiste, al più, in sistemi
deterministici in cui intervengono pochi parametri, ben circoscritti e
calcolabili, la cui azione può essere facilmente prevista. Ma anche in questi
casi abbiamo a che fare con sistemi idealizzati in cui vengono omessi attriti,
masse, dimensioni o quant’altro, a seconda del campo disciplinare considerato.
Tenere sempre presente questo carattere peculiare della teorizzazione
scientifica può evitare aspettative irragionevoli, con conseguenti disillusioni
antiscientifiche. Come afferma l’autore, «nel processo della conoscenza
scientifica niente è definitivo. Anzi proprio la scienza rivendica come suo il
terreno del dubbio fecondo».
Il secondo aspetto che vorrei menzionare tocca il rapporto molto delicato che
intreccia tra loro dimensione scientifica e necessità di assumere
responsabilmente delle decisioni politiche. È infatti avvenuto di recente che
gli inevitabili limiti di attendibilità dei modelli predittivi in campo
climatico abbiano favorito la decisione di nulla fare, in attesa che la comunità
degli scienziati raggiungesse un consenso unanime. Ebbene, non esito a dire che
questo è un comportamento irrealistico ed irresponsabile; irrealistico perché
prescinde da quella inevitabile approssimazione di ogni teoria scientifica, cui
abbiamo prima accennato, per andare in cerca di una unanimità che nella scienza
è più un mito di chi non la conosce veramente che qualcosa di attingibile in
modo definitivo; irresponsabile, perché i tempi della politica non possono
aspettare i tempi della formazione del consenso universale tra gli scienziati,
ammesso che questo sia possibile da conseguire: bisogna decidere ora e subito
ciò che bisogna fare, sulla base della conoscenza disponibile e delle più
accreditate ipotesi predittive che organismi internazionali e super partes sono
in grado di produrre. Il politico non può nascondere le proprie paure o i propri
interessi dietro l’esigenza di una mitica sound science priva di incertezze,
come si è fatto nel recente passato negli USA, sulla spinta di corporations che,
pur di evitare regolamentazioni restrittive, non hanno esitato di dar credito ad
esperti e scienziati il cui principale titolo scientifico consisteva nel
produrre previsioni loro gradite. In questa science war – come è stata
recentemente definita – non corre il rischio di rimetterci il futuro dei nostri
figli, ma ne è vittima anche la scienza e la stessa ragione.
Sono questi i motivi che mi fanno essere in sintonia con l’atteggiamento
dell’«ottimista seriamente preoccupato», che è la posizione dell’autore: mi
sento ancora ottimista perché non ritengo che già sia stato raggiunto il punto
di non ritorno, come pensano i catastrofisti, e perché penso che vi siano
margini di intervento per raddrizzare il cammino dell’umanità verso un
comportamento più responsabile verso l’ambiente; ma sono «seriamente
preoccupato», oltre che per quanto argomenta con efficacia l’autore, anche e
soprattutto perché pessimista circa la possibilità di coniugare consenso
democratico e scelte economiche impopolari: la ricerca populistica del consenso
(meno tasse e più beni di consumo per tutti!) è difficilmente conciliabile con
decisioni che incidono sugli status symbol dell’odierna società opulenta
occidentale. Sembra che l’umanità riesca ad imboccare certe strade sgradite solo
quando è con l’acqua alla gola; e non sempre ciò avviene, visto che vi sono
state società che han preferito annientarsi pur di non rinunziare a certi modi
di vita distruttivi dell’ambiente in cui vivevano, come nel caso dell’Isola di
Pasqua. Forse, allora, potrebbe tornar utile essere un po’ «catastrofisti», per
far venire la strizza ai nostri pigri politici e al tempo stesso destare
l’attenzione dei nostri concittadini, troppo comodamente impoltroniti da una
televisione fatta di veline e pacchi a sorpresa.
Elio Cadelo: Piante Americane (e non solo) nella Roma Imperiale I viaggi
transoceanici dei Romani, (AllAround, pagine 280, euro 18.00)
L’Italia è considerata da sempre una sorta di “giardino dell'Eden” perché presenta la più ampia biodiversità del Mediterraneo. Questa condizione unica, secondo molti storici dell'Ottocento, sarebbe il presupposto che ha permesso a numerose civiltà come quella degli Etruschi, dei Greci della Magna Grecia, dei Sanniti, dei Liguri, dei Sicani ecc., e infine dei Romani, di prosperare. Ma non fu così. La biodiversità della quale gode ancor oggi l’Italia fu “costruita” importando “piante aliene” da ogni dove, soprattutto dal Medio e dall’Estremo Oriente, e dal lavoro degli agricoltori romani che le acclimatarono, le ibridarono e le coltivarono creando, per la prima volta, una varietà di prodotti agricoli unica nella storia. E, tra le centinaia di piante giunte in Italia durante la lunga storia di Roma, alcune, sono autoctone delle Americhe. Piante Americane (e non solo) nella Roma Imperiale - I viaggi transoceanici dei Romani, (All Around, pag. 280, euro 18.00) prende in esame oltre un centinaio di piante - non solo alimentari ma anche medicinali e allucinogene - che, in epoca romana, hanno valicato gli oceani e sono state spostate da un continente all'altro. Il libro dimostra che la presenza nel mondo romano di piante di origine americana come mais, ananas, peperone, zucca, girasole e molte altre è ampiamente comprovata non solo da un gran numero di autori classici ma è anche ben raffigurata in affreschi, mosaici, bassorilievi e statue esposte nei musei di tutta Europa. Inoltre, molto prima del viaggio di Cristoforo Colombo, numerose piante di origine mediterranea, come la ninfea e lo stramonio, erano state diffuse in America, come confermato dall’archeologia e dalliiconografia Maya. In questo nuovo saggio Elio Cadelo, per la prima volta, mette la navigazione al centro dello sviluppo economico e tecnologico delle antiche civiltà e lo fa ricostruendo numerose rotte transoceaniche non solo dei Romani ma anche della gran parte delle antiche civiltà: scambi che sono la testimonianza di come già millenni or sono il commercio si svolgeva su lunghissime distanze. Seguendo le rotte, l’autore ricostruisce una geografia del commercio del tutto inaspettata: i mercanti romani, a bordo delle loro navi, raggiunsero tutti i continenti del globo terracqueo ed entrarono in contatto con molte delle civiltà del tempo. L’economia di Roma fu un’economia espansiva che la portò ad assimilare conoscenze filosofiche, scientifiche e tecnologiche che furono rielaborate e reindirizzate divenendo la chiave del suo successo. :: :: :: All Around srl – Via Nizza, 35 – 00198 Roma redazione@edizioniallaround.it – www.edizioniallaround.it EDIZIONI ALL AROUND La Civiltà romana si fondava su un’organizzazione statale ed economica che, per il suo tempo, fu assolutamente innovativa tanto che ha influenzato, e continua a influenzare ancor oggi, politiche amministrative, processi di formazione e organizzazione degli Stati. Roma fu la più importante civiltà mercantile della storia antica. La sua economia era fondata sul libero mercato e sulla concorrenza. Sotto molti aspetti fu la prima, e forse l'unica, economia "liberista e quasi-capitalista" dell'antichità dove lo Stato aveva un ruolo centrale limitatamente all'amministrazione e all'organizzazione dei servizi. La costruzione dei circa 80mila chilometri di strade e le centinaia di porti si resero necessari, più che alle legioni, al commercio che costituì la principale base economica e politica del successo dell'impero. Alla stesura di Piante Americane (e non solo) nella Roma Imperiale - I commerci transoceanici dei Romani - hanno collaborato botanici, ornitologi, storici della civiltà romana, archeologi, personalità e istituzioni del mondo scientifico, in particolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell'ENEA, che hanno seguito lo sviluppo della ricerca che ha tra le sue fonti principali pubblicazioni di numerose università, soprattutto americane.