scoperti da ricercatori olandesi
di Rita Lena
La malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer Disease) è
tra le principali cause di demenza nel mondo, soprattutto nella
popolazione anziana e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
rappresenta, insieme ad altro tipo di demenze,
la settima causa di morte nel mondo. Una malattia neurodegenerativa
causata da un accumulo di proteine anomale nel cervello che, lentamente,
provocano la morte delle cellule nervose e la graduale perdita delle funzioni
cognitive e della memoria. L’ AD sembra sia legata al mal funzionamento della
proteina TAU, che ha il compito di “pulire” i neuroni liberandoli da sostanze
tossiche, che però, se alterata, si
accumula in aggregati neurofibrillari
permettendo alle placche beta-amiliodi,
che agiscono come una sostanza appiccicosa, di depositarsi tra i neuroni:
una sorta di collante che ingloba placche e grovigli di proteina tau,
’“Nei pazienti affetti da demenza di Alzheimer si osserva, infatti,
una perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria
e per altre funzioni cognitive. Si riscontra, inoltre, un basso livello di
quelle sostanze chimiche, come l'acetilcolina, che lavorano come
neurotrasmettitori e sono quindi coinvolte nella comunicazione tra le cellule
nervose” (Iss-EpiCentro). In
Italia, secondo le stime dell’Osservatorio Demenze (dati Iss 30/11/23), circa
1.100.000 persone soffrono di demenza (di cui il 50-60% sono malati di
Alzheimer) e circa 900.000 hanno un disturbo neurocognitivo minore
e, sono circa tre milioni quelle direttamente o indirettamente coinvolte.
Nel mondo, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 55
milioni di persone convivono con la demenza, un dato, che cresce su base
giornaliera, con previsioni che raggiungono i 78 milioni entro il 2030.
Cifre preoccupanti che però, secondo gli esperti, non descrivono la vera portata
del problema. Ancora oggi, non
esiste una cura risolutiva e le
persone con Alzheimer hanno crescenti esigenze di cure man mano che la malattia
progredisce. Ora, una nuova ricerca pubblicata su Nature Aging condotta
dall’Alzheimer Center Amsterdam, dall’Università di Amsterdam e
dall’Università di Maastricht, Paesi Bassi,
fa sperare che, in futuro, potranno essere progettati nuovi farmaci per
combattere questa malattia. I ricercatori olandesi Betty Tijms e Pieter Jelle
Visser, dell’ Amsterdam University Medical Center,
hanno raccolto, nel tessuto che circonda il cervello e il midollo
spinale, il liquido cerebrospinale di
419 pazienti, e,
analizzandolo, hanno individuato ben 1.058 proteine anomale. Studiando queste
proteine hanno scoperto che queste
si aggregano con composizioni leggermente
diverse; questo ha indotto i
ricercatori a distinguere
cinque diversi tipi di Alzheimer,
ciascuno con progressione clinica e
con aspettative di vita diverse. In
pratica, cinque varianti biologiche della malattia,
che potrebbero spiegare perché
alcuni farmaci si sono rivelati inefficaci nel trattare l’AD, ma la cui
scoperta fa sperare di poterla finalmente curare con terapie mirate e più
efficaci. In particolare, gli scienziati, relativamente alla identità biologica
delle proteine, hanno caratterizzato una ad una le cinque varianti.
Ad esempio una, identifichiamola come la prima,
induce un anomalo livello di crescita delle cellule nervose e di
conseguenza una maggiore produzione di proteina beta-amiloide. I pazienti con
questo sottotipo di Alzheimer hanno una maggiore aspettativa di vita di circa
nove anni dopo la diagnosi rispetto agli altri. Un secondo sottotipo, invece,
pregiudica il funzionamento del sistema immunitario cerebrale ed è
caratterizzato da una riduzione delle sinapsi e delle cellule immunitarie del
cervello, la microglia; un terzo tipo di variante, considerata più rara, induce
il mal funzionamento dell’RNA con conseguente alterazione nella
produzione di proteine nel cervello; mentre la quarta è collegata ad una
disfunzione del plesso coroideo, la struttura cerebrale
che produce il liquido cerebro-spinale. Infine, la quinta variante
sembrerebbe associata all’ alterazione del funzionamento della barriera
emato-encefalica, una struttura
che protegge il tessuto cerebrale, impedendo alle sostanze tossiche di
raggiungere il cervello e di regolare gli scambi con la circolazione sanguigna.
In questa variante si verifica una
minore crescita delle cellule nervose e una ridotta produzione di amiloide.
Immagine PET del cervello di una persona con malattia di Alzheimer che mostra la perdita di funzione del lobo temporale
Come spiegano i ricercatori, alcune delle proteine identificate, in ciascuna
variante della malattia, sarebbero collegate a geni specifici,
e questo spiegherebbe perché alcune persone siano geneticamente più
predisposte ad ammalarsi di un certo tipo di Alzheimer e,
in virtù di questa differenza, perché
farmaci già testati e utilizzati
risultino spesso inefficaci,
se non addirittura poco sicuri nell’interazione con alcuni sottotipi della
patologia. Ad esempio, i farmaci che inibiscono la produzione di amiloide
possono funzionare nella variante con maggiore produzione di amiloide, ma
possono essere dannosi in quella
con ridotta espressione della proteina. Secondo gli scienziati, è
anche possibile che i pazienti con una determinata
variante abbiano un rischio maggiore di effetti collaterali, rispetto ad
altre con rischio più basso e che, il decorso della malattia, in alcuni
sottotipi, sia più rapido. Inoltre, sembra che i pazienti con la seconda e
quarta variante siano soggetti ad un’atrofia cerebrale maggiore che porta alla
perdita di neuroni e a conseguenti problemi di memoria e ragionamento. ll
prossimo passo per il gruppo di ricerca è dimostrare che le varianti
dell'Alzheimer reagiscono effettivamente in modo diverso ai farmaci, così da
poter realizzare molecole mirate ed efficaci
per ogni paziente.
Alla luce di quanto è emerso dal Convegno del Fondo per l’Alzheimer e le demenze
2021-2023 che si è svolto il 22 e 23 gennaio presso l’Istituto Superiore di
Sanità, “i servizi per le persone con demenza – recita il comunicato dell’Iss -
sono distribuiti in modo disomogeneo sul territorio nazionale,
quanto a numero delle strutture per area territoriale e numero di
residenti, orari di apertura, figure professionali impegnate. In generale, si
rileva un maggiore sviluppo ed efficienza delle realtà del Nord Italia rispetto
a quelle del centro e Sud Italia e isole. A livello nazionale, la valutazione
dei servizi si attesta su giudizi negativi e molto negativi per il 45% dei
familiari”. Il convegno è stato anche l’occasione per presentare le Linee Guida
“Diagnosi e trattamento con demenza e Mild Cognitive Impairment”. Secondo un
recente studio, hanno ricordato gli esperti, in Italia i costi complessivi
sostenuti per le demenze sono stimati in 23 miliardi di euro, di cui il 63% a
carico dei familiari (Fonte: Università degli studi di Tor Vergata. Cost of
illness della demenza in Italia e cost-consequences analysis). “Le demenze sono
un tema di salute pubblica molto importante, il cui impatto è destinato a
crescere nel futuro, e coinvolge attualmente anche circa 4 milioni di familiari
oltre ai pazienti – afferma il presidente dell’Iss Rocco Bellantone -. Questo
lavoro ha cercato di entrare nel dettaglio dei contesti locali restituendo
report specifici a ogni singola regione. Questa è la direzione, camminare
insieme cercando di armonizzare le realtà regionali per uniformare e garantire i
servizi a livello nazionale”. Il
Fondo per l’Alzheimer e le demenze – anni 2021-2023 – è stato il primo
finanziamento pubblico sulle demenze in Italia e ha rappresentato, dopo il
Progetto Cronos e la pubblicazione del Piano Nazionale delle Demenze (Pnd), la
più grande operazione di sanità pubblica su questo tema.
Il Fondo ha messo a disposizione delle Regioni e Provincie autonome (Pa) un
finanziamento pari a 14 milioni e 100.000 Euro, ed un finanziamento di 900.000
Euro all’Iss. Agli enti territoriali è stato richiesto di intraprendere la
proposizione di una o più azioni progettuali (diagnosi precoce, diagnosi
tempestiva, telemedicina, tele-riabilitazione e trattamenti psicoeducativi, di
stimolazione cognitiva e di supporto ai caregiver). Sono questi i risultati
ottenuti dall’Osservatorio Demenze
dell’Iss, (nell’ambito del Fondo per l’Alzheimer), che, oltre a coordinare le
attività a livello nazionale, ha realizzato una serie di attività.