Com’è andata la ventisettesima conferenza
delle parti?
di Bartolomeo Buscema
Prima di tratteggiare degli esiti della ventisettesima Conferenza delle Parti
tenutasi a Sharm el- Sheikh dal sei al diciotto di novembre
2022, è opportuno fare un quadro di quanto accaduto in tema di energia e
clima dopo la COP 26 di Glasgow e i
suoi accordi insufficienti per far fronte all’emergenza climatica. Il recente
rapporto sulle emissioni di gas serra nel 2022 (Emissions Gap 2022: The Closing
Window – Climate crisis calls for rapid transformation of societies) rilasciato
dall’UNEP rileva che la comunità internazionale è molto lontana dagli obiettivi
dell’Accordo di Parigi e che gli impegni nazionali aggiornati dopo la COP26
hanno effetti trascurabili per quanto riguarda le emissioni previste per il
2030. Stiamo
rischiando di arrivare a fine secolo con un aumento di temperatura di 2,8
°C. Un valore ben superiore ai 1,5 °C posto come soglia dell’accordo di
Parigi e, quindi, di non centrare gli obiettivi a
dispetto del fatto che il documento chiarisce che senza una profonda
trasformazione del nostro modello di sviluppo la nostra Terra è destinata a
un’instabilità climatica irreversibile. Dobbiamo dire che con la stessa
chiarezza e pragmatismo, il rapporto fornisce le vie virtuose per far fronte a
tale criticità specialmente per i comparti della produzione di energia elettrica
dell’industria, dei trasporti e del riscaldamento e raffrescamento degli
edifici, della produzione alimentare. Abbiamo, quindi, ancora un margine di
manovra. C’è da dire che quest’ultima Conferenza delle Parti sul Clima globale è
stata un’occasione di straordinaria importanza per i tanti temi trattati anche
alla luce delle drammatiche situazioni che si sono presentate nel corso del 2022
tra cui l’invasione russa all’Ucraina (che si aggiunge alle altre guerre in atto
e che ha innescato una crisi energetica, alimentare, dei prezzi); le alluvioni
sempre più frequenti, l’aumento preoccupante delle aree siccitose, gli uragani
sempre più devastanti. Quest’anno, i tavoli di discussione concernevano sei
punti chiave: Transizione
energetica, Sicurezza alimentare, Finanza innovativa per il clima e lo sviluppo,
Investire sul futuro dell'energia, Sicurezza idrica, Cambiamento climatico e
sostenibilità delle comunità vulnerabili. Purtroppo, anche questa volta, gli
esiti hanno deluso le molte attese.
La COP 27 doveva essere una sorta di tagliando per verificare se i governi, con
necessità ed economie differenti, intendevano tener fede agli impegni assunti.
Durante i primi giorni del summit, i Paesi più poveri hanno chiamato le economie
più sviluppate a rispondere delle loro responsabilità legate alla crisi
climatica, proponendo un meccanismo per finanziare il capitolo “Perdite e danni”
subìti principalmente dai Paesi poveri, spesso irreversibili e talvolta non
misurabili. Sono trent’anni che si parla di finanziare i Paesi poveri, ma finora
sola Danimarca, Scozia e Vallonia hanno stanziato volontariamente fondi per i
Paesi in via di sviluppo. E ciò non è un segnale positivo in relazione al
rapporto dell’Organizzazione meteorologica mondiale, pubblicato nel 2021,
dove si legge che le perdite economiche legate ai disastri climatici si
sono moltiplicate per sette negli ultimi cinquant’anni. Nelle scorse settimane,
in Pakistan, più di 1.500 persone sono morte nelle inondazioni che hanno
sommerso un terzo del Paese, mentre l’innalzamento del mare cancella la storia
di molte piccole isole e comunità costiere. Un capitolo di negoziato scottante e
urgente che purtroppo durante la fase preparatoria non era stato analiticamente
messo a fuoco e che ha reso scivoloso il terreno dei negoziati. Per fortuna il
fallimento che si prospettava è stato evitato in extremis, grazie a un accordo
di sostegno finanziario ai Paesi più vulnerabili all'impatto catastrofico dei
cambiamenti climatici che sono anche i meno inquinatori. E’ un passo avanti,
anche se molti punti dovranno essere messi a fuoco prima della Cop28 che si
terrà il prossimo anno negli Emirati arabi. Altri temi trattati stati un palese
fallimento. Ad esempio, sulle emissioni di gas serra nessuna importante novità:
alla dichiarazione "Accelerating to Zero (A2Z)" che prevede un impegno per il
trasporto a zero emissioni, eliminando la vendita di auto e furgoni con i motori
a combustione interna dal 2035,finora hanno aderito Spagna e Francia. Restano
fuori i grandi produttori di
automobili del mondo come Cina, Stati Uniti, Giappone, India, Corea del Sud,
Germania. Alla Cop27, inoltre, non è stato raggiunto l’obiettivo di mobilitare i
famosi cento miliardi annui per la finanza climatica, che dovrebbe inglobare una
serie d’investimenti in progetti, infrastrutture e iniziative per limitare i
danni del riscaldamento globale. Bisogna
ancora aggiungere che l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale a
+1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali è stato fortunatamente confermato
anche se di arduo raggiungimento. Insomma un summit costellato di compromessi
amari, di tante speranze (more solito) e
di qualche posizione realistica come quella del vicepresidente della
Commissione europea Franciscus Cornelis Gerardus Maria "Frans" Timmermans:
«Quello che abbiamo di fronte non è un passo avanti sufficiente per le persone e
per il pianeta. Non comporta sufficienti sforzi aggiuntivi da parte dei
principali emettitori per aumentare e accelerare i tagli alle emissioni».Del
resto, cosa potevamo aspettarci da un summit al quale hanno partecipato 636
lobbisti dei combustibili fossili decisamente più numerosi dei delegati di Porto
Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Mozambico, Bahamas, Bangladesh, Pakistan,
Tailandia e Nepal che sono tra i dieci Paesi più colpiti dalla crisi climatica.