Ricordi e sospetti di un inviato speciale a Cape Canaveral
A 30 anni dal primo lancio spaziale
del satellite al guinzaglio
Ombre su un esperimento italiano
riuscito a metà
di Giuseppe Prunai
Sheriff Joshua Carducci,
sceriffo Giosuè Carducci: recitava così la targhetta d'ottone che aveva sulla
camicia. In testa il capellone a larga falda, come quello dei cowboy,
al fianco un pistolone a tamburo che faceva tanto Buffalo Bill.
Era appollaiato su un alto sgabello al bancone di un bar dove stava
facendo colazione con uova, bacon e caffè nero. Era lo sceriffo di Miami Beach.
I famosi cipressi
Capitai in quel bar per caso, una mattina, abbastanza presto. Lo guardavo
sorridendo e l'uomo ebbe un moto di fastidio e mi chiese in modo abbastanza
sgarbato perché lo stessi guardando e perché ridessi di lui. Gli spiegai
che ero italiano, anzi toscano e che avevo una specie di culto per il
poeta Giosuè Carducci di cui lui portava il nome.
La
faccia dello sceriffo si illuminò
di un sorriso e mi spiegò
che i suoi nonni erano italiani, di Castagneto
Carducci ed avevano un vero e
proprio culto
del poeta. Poi cominciò a
recitare, in un italiano che non era
italiano, quel "Davanti
a San Guido" che ci ha
deliziato da allievi delle scuole medie.
“I saipressi che a Bolghèri alti e scietti van da Saint Ghido”
e via dicendo.
Sorridendo continuai la poesia in
modo più corretto e si stabili fra me e lo sceriffo Giosuè Carducci una sorta di
simpatia. Mi chiese cosa facessi di
mattina presto (immagine a sinistra) in
un bar di Miami beach.
Sono un giornalista, risposi, e sono qua
per assistere al lancio spaziale di oggi.
Fra poco dal mio albergo partirà il pullman per Cape Canaveral
e non voglio perderlo. Lo
sceriffo volle riaccompagnarmi con la macchina di servizio:
un macchinone enorme dentro al quale
era sistemata una serie di apparecchiature: ricetrasmittente,
fax, lo scanner per le foto
e per trasmettere le impronte digitali, altoparlanti esterni collegati ad un
microfono per impartire disposizioni.
Accese il lampeggiante,
azionò la sirena e in men che non
si dica mi depositò dinanzi
all'albergo.
“Cosa è accaduto?” mi chiesero i colleghi
preoccupati.
“Niente, è il mio amico sceriffo Giosuè Carducci che mi ha dato uno strappo” e
tutti mi guardarono come si guarda un folle.
Era il 31 luglio 1992, 30 anni fa, e insieme con un gruppo di colleghi italiani
ero diretto a Cape Canaveral per
assistere al primo lancio del Tethered satellite system.
Con questa con questa premessa il
viaggio dall'albergo al centro spaziale della NASA non poteva che essere
divertente. Ad un certo ad un certo punto l'autista del pullman rallentò
notevolmente e gridò rivolto verso i passeggeri:
“attention, cocodriles”. In mezzo
alla strada c’era la mamma coccodrillo con quattro coccodrillini.
Il pullman si avvicinò, poi l’autista suonò
il clacson e i cinque alligatori
scattarono tuffandosi nel canale che costeggiava la strada.
In prossimità della base spaziale vedemmo un aereo che stava
letteralmente atterrando su un canneto: era l’Air force
one che portava
Cape Canaveral, il
presidente degli Stati Uniti, mi sembra fosse Bush padre.
L’aereo si posò su una pista
mimetizzata dalla vegetazione, visibile dall’alto solo con una certa
angolazione.
Il Tethered satellite system, il
cosiddetto. Satellite al guinzaglio,
avrebbe dovuto produrre energia elettrica nello spazio.
Il meccanismo, studiato per la prima volta da
Mario Grossi nel 1972 e sviluppato
successivamente da Giuseppe Colombo, era di una semplicità incredibile.
Un conduttore della lunghezza di 20 km,
ricoperto di una fodera di clevar, con appeso un satellite,
una grossa sfera di metallo, sarebbe stato
filato fuori dallo Shuttle.
Il filo, a tutti gli effetti un
dipolo, sfruttando le variazioni di
flusso del campo magnetico terrestre, avrebbe prodotto una corrente elettrica
con un’ elevata differenza di potenziale.
Per chiudere il circuito si sarebbe ricorsi ad un elektron gunn, un
cannone ad elettroni puntato sul satellite.
Umberto Guidoni
Per filare il cavo fuoribordo era previsto l’uso di un verricello simile a
quello di una canna da pesca. Lo
aveva realizzato un’azienda canadese che lavorava nel settore aeronautico e
spaziale. Ma il verricello si
bloccò. Sembra a causa di un
bullone che sporgeva eccessivamente e che impediva la rotazione della puleggia.
Il responsabile dell’esperimento,
l’astronauta italiano Franco Malerba,
riuscì a fare uscire dallo Shuttle
soltanto 260 metri di cavo,
sufficienti comunque a produrre energia: solo una quarantina di Volt
sui 5000 previsti. Malerba azionò egualmente il cannone ad elettroni
modulandone l’emissione: in un
laboratorio di Genova c’era qualcuno in ascolto sulle onde lunghe e sembra abbia
captato questo strano alfabeto Morse.
Ma non
ne sappiamo di più: molti risultati sono stati occultati alla stessa comunità
scientifica.
Nonostante i modesti risultati raggiunti si ebbe la certezza che il principio
era valido e che valeva la pena di insistere. Quattro anni più tardi,
nel febbraio del 1996, si
tentò di ripetere l’esperimento.
Questa volta furono gli astronauti Maurizio Cheli e Umberto Guidoni a tentarlo.
Purtroppo quando già avevano filato 17,7 chilometri di cavo questo si
ruppe all’altezza del verricello: il satellite andò alla deriva nello spazio
portandosi dietro quasi 20 km di filo che per fortuna non si avvolsero attorno
allo shuttle, una situazione
che sarebbe stata estremamente pericolosa.
Solo sfiga? Chissà.
L'equipaggio della STS-46 Malerba è il primo sulla destra
Dimostrata la validità del principio gli italiani abbandonarono questo tipo di
esperimento. Insistettero invece
gli americani che nel giugno 1996
lanciarono due satelliti legati con un cavo di 4 km. Tutto andò liscio, alla
perfezione. I due satelliti rimasero in orbita fino a luglio 2006.
C’è una certa riservatezza attorno a questo esperimento ma si presuppone
che si sia trattato di un sistema di trasmissione in onda lunga per comunicare
con i sommergibili in immersione.
Lo strano è che gli esperimenti italiani fallirono per cause banali mentre
quello americano andò a buon fine.
Non vogliamo fare del complottismo
ad ogni costo però, come diceva la buonanima di Andreotti, a pensar male si fa
peccato ma spesso ci si azzecca.
Fatto sta che le agenzie spaziali di Canada e Giappone, indipendentemente l’una
dall’altra, mostrarono interesse
per la produzione di energia elettrica direttamente nello spazio.
Avrebbe potuto essere un’occasione per alimentare la Stazione Spaziale
Internazionale alleggerendola di tutti quei pannelli solari che, tutto sommato,
non hanno un grosso rendimento, sono ingombranti e pesanti e vanno di tanto in
tanto sostituiti. Incomprensibile il fatto che nessuno abbia lavorato in tal
senso.