Dalla legge Veil

all’invito a osare:

50 anni di involuzione giuridica

 

di Magali Prunai

“Ogni anno in Francia abortiscono un milione di donne. Condannate alla segretezza, sono costrette a farlo in condizioni pericolose quando questa procedura, eseguita sotto supervisione medica, è una delle più semplici. Queste donne sono velate, in silenzio. Io dichiaro di essere una di loro. Ho avuto un aborto. Così come chiediamo il libero accesso al controllo delle nascite, chiediamo la libertà di abortire”,

Iniziava così il Manifesto delle 343, un documento pubblicato nel 1971 dalla rivista Nouvel Observateur e firmato da 343 donne, prima firmataria e autrice del testo Simone de Beauvoir (foto sinistra), che ammettevano di aver avuto, illegalmente, un aborto. Esponendosi così alle conseguenze penali della legge del 1920 che vietava qualsiasi pratica medica atta all’interruzione volontaria di gravidanza, nel 1943 Marie-Louise Giraud fu condannata alla ghigliottina per averne praticate 27, chiedevano al governo un repentino cambio di rotta e di proteggere tutte quelle donne che per qualsiasi ragione trovavano necessario rivolgersi a medici clandestini, che spesso tutto erano meno che medici.

Il manifesto, come era ovvio, fece scalpore scatenando una feroce satira che ribattezzò le 343 come donne di facili costumi, usando una terminologia molto più violenta e offensiva. Nonostante ciò, poco dopo fu pubblicata una dichiarazione di supporto al manifesto firmata da 331 medici che affermavano come la decisione di ricorrere o meno all’aborto fosse esclusivamente della donna.

A cavallo fra il 1974 e il 1975 entrò in vigore, in Francia, la legge Veil, chiamata così perché proposta da Simone Veil, all’epoca ministro della salute, che depenalizzava l’interruzione volontaria di gravidanza rendendola possibile entro la 12esima settimana dal concepimento.

Una parola tabù, che fino a quel momento veniva solo sussurrata, dice Claudine Monteil, una delle 343, finalmente poteva essere gridata.

Il manifesto francese fece da apripista per molte altre donne, ad esempio sempre nel 1971 la rivista tedesca Stern pubblicò un testo dal titolo “abbiamo abortito” firmato da 374 donne, fra le quali la celebre Romy Schneider. Il risultato fu che la Germania dell’est abolì il divieto già nel 1972, mentre la Germania ovest si adeguò solo nel 1974. Ma dobbiamo aspettare comunque il 2022 perché tutti i tabù e i divieti, soprattutto a carico dei medici, stabiliti nel 1933 da una legge nazista, perdano definitivamente di efficacia.

Simone Veil (immagine tratta da Euronews)

In Italia, invece, è del 1978 la ormai nota legge 194, quella che consente alle donne l’interruzione di gravidanza entro i primi 90 giorni dall’avvenuto concepimento e ai medici di rifiutare di praticarla perché contraria alla loro morale.

E mentre in alcuni Stati si decide che l’aborto, anche quando è a rischio la salute della donna, non solo quella fisica, non è più un diritto, e si torna a proporre come alternativa l’adozione, in Francia si è firmato un nuovo manifesto.

Romy Schneider

Questa volta la promotrice è la deputata Albane Gaillot, ex esponente del partito del presidente Macron e ora passata all’opposizione con i verdi, che insieme a movimenti femministi, professionisti della salute e a varie associazioni di categoria ha chiesto, e ottenuto, di portare il limite massimo dell’aborto da 12 a 14 settimane.

E mentre nel mondo utopico che tutti vorremmo discriminazioni e disuguaglianze spariscono, nell’Italia reale un giudice della corte d’Appello di Torino decide che non c’è violenza carnale se una donna ubriaca lascia la porta del bagno aperta. Un tribunale, nel 2022, invece che difendere quei diritti che faticosamente abbiamo ottenuto negli anni, li mette in discussione sancendo il principio di “invito a osare della vittima”.

Il Galileo