Eutanasia:

 un problema tutto italiano

 

di Magali Prunai

 

Questo articolo, resoconto di un dibattito universitario organizzato da alcune associazioni studentesche, è stato pubblicato da Magali Prunai nel 2012 su Synergy Magazine. Lo riproponiamo, con alcune correzioni, perché in 10 anni la situazione italiana non è cambiata del tutto

 

La morte di Socrate, di Jaques-Louis David, Metropolitan Museum of Art,

 New York

 

Da tempo, in Italia, medici, avvocati e società civile discutono di un argomento estremamente delicato: eutanasia sì o no?

Il punto di partenza non può non essere la vicenda di Eluana Englaro, la donna alla quale fu concesso di porre fine alla propria vita dopo 20 anni di coma profondo, grazie all’estenuante battaglia della famiglia. Eluana, dopo aver fatto visita a un amico in coma profondo e aver assistito alla terapia aggressiva alla quale veniva sottoposto, affermò con convinzione davanti ai genitori di non considerare vita quella situazione e di non volerla subire se mai le fosse accaduto qualcosa. Poco dopo, a seguito di un grave incidente, entrò in coma. Solo dopo 20 anni di battaglie, e tanta derisione e commiserazione, un tribunale diede il via libera all’esecuzione della sua volontà anche se nessun ospedale pubblico si rese disponibile per metterla in pratica.

Nonostante il dibattito che scaturì proprio dopo la questione di Eluana Englaro, in Italia ancora oggi non abbiamo una legge che consenta l'eutanasia. Anzi, il nostro ordinamento condanna fermamente qualsiasi comportamento del genere: uccidere qualcuno, perché la sua malattia è irreversibile o per qualsiasi altro motivo, è sempre "contra legem", è sempre illegale.

Eppure definire l’eutanasia come un mero atto di omicidio è riduttivo. L’omicidio è l’atto, più o meno volontario, che pone fine alla vita di una persona senza che questa sia minimamente d’accordo. L’eutanasia, invece, si propone come scopo quello di porre fine a una vita gravemente compromessa da una malattia, rendendo la sua qualità scarsa e poco dignitosa.

Storicamente, questo termine è stato introdotto dal filosofo inglese Francis Bacon nel 1605 con il suo saggio “Progresso della conoscenza”. Il filosofo invitava i medici a non abbandonare i pazienti con malattie incurabili ma ad aiutarli affinché non soffrissero, introducendo, così, il concetto di "buona morte": è dovere del medico aiutare il paziente a raggiungere una morte indolore e dignitosa attraverso pratiche di inibizione del dolore stesso.

Ma il moderno concetto di eutanasia è stato fondato nel XIX secolo, quando il termine ha assunto il significato di una pratica non riprovevole di omicidio perché motivata da misericordia, strettamente legata al concetto di rettitudine morale del medico e del suo operato.

Ma, comunque la si voglia chiamare, l'eutanasia rimane ancora un suicidio assistito; una brutta parola, o forse una brutta interpretazione, che si porta dietro, volente o nolente, un dibattito acceso e forse inesauribile.

Un altro esempio “famoso”, che ha fatto scuola in questa infinita discussione, riguarda un uomo che non aveva più la forza di combattere. Piergiorgio Welby fu colpito da distrofia muscolare e chiese allo Stato di poter morire, ma lo Stato rifiutò il suo consenso. Del resto in Italia non abbiamo una vera libertà di scelta sulla nostra vita. Non possiamo lasciare delle volontà scritte nelle quali specificare cosa vogliamo ci accada in caso di malattia grave, impossibile da curare o di coma profondo.

Il medico anestesista che aiutò Welby fu accusato di omicidio ma, alla fine, fu dichiarato non colpevole. La situazione, alla fine, non è poi così diversa da quella di Marco Cappato che, dopo aver portato DJ Fabo in una clinica in Svizzera per potere praticare il suicidio assistito, è stato accusato di istigazione al suicidio per poi essere assolto perché il fatto non sussiste.

Insomma, la magistratura, in assenza di leggi in materia, viene interrogata sulla liceità di certi comportamenti nonostante non possa dare risposte univoche e certe. Il giudice viene chiamato a indagare nella mente della persona, deve capire se fosse stremata dalla sua condizione al punto da non poter prendere coscientemente una decisione  o se proprio quella condizione ha determinato una scelta coscienziosa e nel pieno delle proprie facoltà, Chiamata quindi a rispondere alla difficile domanda, senza poter dare una vera risposta, ovvero se l'eutanasia è un aiuto per porre fine alle sofferenze di qualcuno o è un omicidio o un suicidio, la magistratura si è ormai unita a gran voce alla richiesta popolare di dipanare il dilemma con un intervento legislativo.

E nonostante la forte volontà e la necessità di una legge in tal materia, la Corte Costituzionale italiana ha respinto una richiesta di referendum del Partito radicale proprio sull’eutanasia.

La Corte ha rigettato la richiesta perché il quesito era mal scritto, invitando così a riformularlo in modo tale che possa essere preso in considerazione.

Contemporaneamente, circa un mese fa, finalmente il potere legislativo è intervenuto: la Camera dei Deputati ha approvato un testo sul suicidio medicalmente assistito, lasciando così l'ultima parola al Senato. Se il testo sarà approvato, dopo la firma del Presidente della Repubblica e la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sarà legge a tutti gli effetti.

La proposta di legge prevede la possibilità per un paziente, incurabile o affetto da una condizione di malattia irreversibile e che ha rifiutato un programma di cure palliative, di cercare assistenza medica per porre fine alla sua vita. La richiesta sarà inoltrata dal medico curante e valutata da un comitato clinico.

Ma il problema non è risolto: il suicidio medicalmente assistito non è eutanasia e non è rivolto a tutti.

Inoltre la questione etica non è risolta. Il confine tra aiutare e uccidere rimane, anche così, molto sottile. Rimane la domanda se l'eutanasia sia davvero un modo per porre fine alle sofferenze di un malato incurabile o se è solo un atto di suicidio, come sostiene la Chiesa cattolica. Per ora il punto è stato parzialmente risolto introducendo anche in questo frangente l’obiezione di coscienza, ovvero la facoltà da parte dei medici di potersi dichiarare contrari e rifiutarsi di applicare qualsiasi pratica che non si proponga di curare e prolungare la vita.

Il rischio è che il suicidio assistito diventi una pratica difficile e difficoltosa, come l’aborto, costringendo il diretto interessato a pellegrinare da un ospedale a un altro, da una città a un’altra, di regione in regione, finché non trova quell’unico o raro medico disponibile.

Il Galileo