Il giorno della memoria
Realizzato dai militari italiani prigionieri dei tedeschi è conservato nel museo
della basilica milanese di Sant’Ambrogio
di Magali Prunai
Il giorno della memoria è passato da poco, ma la scia delle solite squallide
polemiche che si porta dietro sono ancora lontane dal disperdersi.
Polemiche prive di senso, come se lamentarsi a mezzo social possa in qualche
maniera cancellare un passato scabroso, triste, indegno e indecente di una
società evoluta.
Eppure la legge 211 del 2000 che istituisce la giornata del 27 gennaio come
momento di ricordo e riflessione non vuole innescare polemiche e prestare il
fianco a una distorsione della realtà, soprattutto se consideriamo ancora oggi
come valori guida gli stessi sui quali la nostra Democrazia nasce e si fonda.
Il 27 gennaio si ricorda chiunque sia stato perseguitato, torturato e sterminato
dalla follia umana in un periodo storico ben specifico. Il popolo ebraico ha
sicuramente pagato il prezzo più alto, seguito poi da zingari, rom, disabili,
omosessuali, avversari politici e da tutti quei militari ai quali non era
riconosciuto il rango di prigioniero di guerra, chiamati in modo spregiativo IMI
(Internati Militari Italiani).
Gli IMI erano sì soldati italiani, ma quei soldati che dopo l'8 settembre del
1943 non aderirono alla repubblica sociale, non collaborarono coi tedeschi.
Furono deportati, non furono riconosciuti prigionieri di guerra, a loro non si
applicò la convenzione di Ginevra, loro furono trattati come animali.
Nonostante il freddo, nonostante la fame, nonostante le continue angherie,
continuarono a rifiutare le offerte di passare dall'altra parte, continuando a
soffrire, chi fino alla morte chi fino alla liberazione. Tornati a casa in un
modo ignobile, perché nessuno si volle veramente occupare di loro e del loro
rientro, per anni nascosero la loro storia, un po’ per pudore e un po’ per paura
di un giudizio impietoso.
Si ritiene che se gli IMI, circa 600 mila persone, fossero passati in massa con
la Germania la guerra o avrebbe avuto un esito diverso o sarebbe durata molto di
più.
Fu Alessandro Natta a parlarne veramente per la prima volta, ex IMI lui stesso,
in un libro intitolato "L'altra resistenza". Resistenti anche loro, come chi
partecipò in modo attivo alla guerra di liberazione, un ruolo riconosciuto come
tale dalla Repubblica italiana che rilascia attestati di “combattenti per la
libertà” e medaglie all’onore ai pochi superstiti ancora fra noi o ai diretti
discendenti. Un riconoscimento con lo scopo di non distinguere più fra quelli e
quegli altri, ma per dire in modo definitivo e senza appello: noi.
Ma se penso agli IMI la mia immaginazione mi porta a una notte d’inverno del
’44, in una baracca del campo di Wietzendorf dove un gruppo di prigionieri si
organizza per poter festeggiare il Natale. Tutti donano qualcosa, piccoli tesori
che a noi, cresciuti nel caldo e nella pace delle nostre case, fanno sorridere:
un lembo della divisa lacera, un pezzetto di un fazzoletto ricevuto in regalo
anni prima, quando si era ricevuta quella lettera che ti diceva di partire per
la guerra, un po’ di margarina. Ogni internato riceveva una razione di 15 grammi
di margarina, con la quale insaporire l’acquetta sporca che veniva servita una
volta al giorno come pasto. Gli abitanti di quella baracca, nel desiderio di
essere ancora uomini, nel ricercare e non perdere quella dignità di essere
umano, si privarono del bene più prezioso: alcuni grammi di cibo per poter dare
forma a un Presepe.
E quel Natale anche i prigionieri di Wietzendorf, nonostante il gelo, nonostante
la neve, nonostante i maltrattamenti, poterono assistere alla nascita di Gesù
bambino.
Il Presepe degli Internati di Wietzendorf si può vedere, oggi, nel museo della
Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano. In una teca posta vicino ad altri Presepi
tipici della nostra tradizione, circondati da una sorta di filo spinato, trovano
posto la Sacra Famiglia e i Magi. Ma i prigionieri vollero anche rappresentare
la realtà che stavano vivendo e la loro cultura. E quindi troviamo un soldato
italiano, un frate, una filatrice e un soldato longobardo.
E guardando quel longobardo, del quale non sappiamo nulla, né dell’autore né del
perché sia stato messo in quella situazione, il cuore si stringe e gli occhi si
velano. La mente corre alla mia infanzia, a una figura cara che mai ha voluto
raccontare di quei giorni e a una figurina, un alberello di carta ritagliato
alla bella e meglio proprio per Natale, proprio in quel campo, per sentirsi più
vicino a casa in quella notte Santa che in quel luogo, in quel tempo, di santo
aveva solo il nome.