Edith Bruch : “Il Pane perduto”, ed. La nave di Teseo, pp 126
Recensione di Magali Prunai
“Il pane perduto” è l’ultimo romanzo
pubblicato dalla scrittrice e poetessa Edith Steinschreiber, meglio nota
come
Edith Bruck.
Pubblicato nel 2021 da “La nave di Teseo”, si tratta di un romanzo
autobiografico tanto semplice da leggere, nel suo stile crudo e sbrigativo,
privo di inutili orpelli, quanto complicato da raccontare.
L'autobiografia della Bruck potremmo quasi dividerla in tre parti: la vita
prima, la vita durante, la vita dopo. Tre vite differenti, tre persone
completamente diverse fra loro ma indivisibili.
La vita prima, quella di una ragazzina spensierata che vive con la sua
poverissima famiglia in un villaggio in Ungheria. Ama studiare, ama scrivere,
ama le poesie e fatica a comprendere la madre, sempre arrabbiata e scontenta, e
il padre, chiuso alla famiglia come al mondo. La guerra, il razzismo, l'odio non
hanno ancora scalfito la sua vita innocente, rimanendo ancora sullo sfondo.
La vita durante, quella iniziata con la fine della Pasqua del 1944 quando
l'intera famiglia viene deportata prima nel ghetto a Budapest e poi verso i
campi di sterminio. La disperazione della madre che la sera prima aveva messo a
lievitare il pane e che ancora non aveva cotto, la disperazione per i figli
lontani, la disperazione per l'incertezza e la paura. L'inizio della
consapevolezza, la separazione, la scoperta di cosa stava veramente accadendo,
il legame inossidabile con l'unica sorella dalla quale non viene separata. Una
sorella-mamma, che nella disperazione più totale, nella fame nera, si preoccupa
della sorellina, aggrappandosi l'una all'altra come ultima speranza di vita.
La vita dopo, finita la guerra, dopo la liberazione, spidocchiate e
disinfettate, svezzate di nuovo al cibo e alla vita. Il rientro a casa, lungo e
sofferto, il ritrovare le sorelle maggiori che si sono salvate dalla
deportazione, che hanno patito la fame e la paura delle bombe, che non
capiscono, o non vogliono capire, che le sofferenze delle sorelle sono state ben
altre, diverse. Edith e la sorella hanno l'orrore negli occhi, nel cervello, nel
corpo. Ma nessuno ne vuole sentire parlare, i parenti, la gente per la strada,
gli amici che non sono più tali. Si guardano tutti con sospetto, ci si tollera a
malapena. Sarà il fratello David, anche lui superstite dell'atrocità nazista, a
trovare una chiave di lettura e a suggerirla alle sorelle, con le quali oramai
ha un legame molto più profondo di quello di sangue. I superstiti sono i loro
veri fratelli e sorelle, perché solo loro capiscono, solo loro sanno.
Dalla lettura capiamo perché in tanti hanno scelto di trasferirsi in Israele, di
credere nel sogno di una Terra Promessa. Casa loro non era più tale, nessuno
voleva ascoltare, capire, aiutare. C'era fame, povertà, paura e vigliaccheria,
tanta vigliaccheria.
Arriva in Israele, si sposa, divorzia, si sposa ancora, parte con una compagnia
di ballo e torna in Europa, lavora in un salone di bellezza, si sposa, diventa
una scrittrice.
Nella vita precedente si ritrovò a dover "buttare" i cadaveri dei compagni di
morte nelle fosse comuni, quelli con gli occhi sbarrati che anche da morti
imploravano pietà, impossibili da dimenticare, e quelli ancora in fin di vita
che rivolgevano tutti la stessa preghiera "non dimenticare"; "ricorda per noi";
"raccontalo a tutti perché tutti sappiano".
Ma perché il mondo intero riprenda a ricordare e smetta di soffrire di amnesia
dobbiamo aspettare parecchi anni dalla fine della guerra. Il secondo processo ad
Auschwitz, o processo di Francoforte, svoltosi negli anni '60, fu quello che
ricordò all'Europa il suo passato.
Rinaldo De Benedetti: “Il romanzo di Catullo”, LED Edizioni Universitarie di
Lettere Economia Diritto, Milano 2021, pp. 140, euro 22,00.
Recensione di Adriana Giannini
Capita di incontrare Catullo proprio negli anni di liceo in cui si è più
disposti ad apprezzarlo; finalmente una boccata di aria fresca in mezzo a tanti
autorevoli, ma irrimediabilmente sorpassati autori latini. Perché Catullo è
un poeta che senza mezzi termini mette in versi proprio quello che ogni giovane
pensa: “Viviamo e amiamo, non ascoltiamo i brontolii dei vecchi”. E usa parole
così comprensibili e vicine a noi da sembrare dette ieri e non più di duemila
anni fa; all’amante chiede: “Da mi basia mille, deinde centum, dein mille
altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum…..” e
per svergognare un paio di ex amici rivali in amore di uno dice che ha un
caprone sotto le ascelle e di un altro che si sbianca i denti con il proprio
piscio.
Sarebbe però sminuire un poeta colto e sensibile come Catullo ricordare, come
tende a fare la maggior parte degli studenti, solo questi aspetti più leggeri e
divertenti della sua poetica. Nella sua breve vita – morì a soli trent’anni –
conobbe grandi entusiasmi e delusioni, tragedie come la morte del fratello,
successi letterari e amorosi, tradimenti, solitudine e malattia. Su tutte queste
vicissitudini scrisse mirabili composizioni un centinaio delle quali sono
arrivate sino a noi grazie alla pazienza di anonimi copisti che forse,
nonostante la severa disciplina a cui erano solitamente sottoposti, si saranno
permessi qualche sorrisetto sotto ai baffi.
Lo stesso gratificante effetto deve probabilmente aver fatto a Rinaldo De
Benedetti, l’autore del prezioso libretto che vi consiglio, scegliere una
cinquantina di poesie di Catullo e tradurrle in versi
italiani idealmente fedeli al testo latino originale, sempre riportato
per chi volesse cimentarsi in un confronto. Possiamo immaginarlo giovane
ingegnere trentenne, non ancora divenuto il noto e apprezzato giornalista e
pubblicista scientifico del secondo dopoguerra, ma già seriamente impegnato a
guadagnarsi il pane per sé e i fratelli tra insegnamento della matematica ed
editoria scientifica, dimenticare le difficoltà quotidiane immergendosi nel
movimentato, godereccio ambiente della Roma preimperiale. Ambiente che Catullo
pensava di conquistare con le sue rime e che fa da cornice al suo travagliato
amore per l’incostante, seducente nobildonna romana cantata sotto il nome di
Lesbia.
Il “Romanzo di Catullo” è però qualcosa di più di una bella raccolta di poesie.
Esse sono il filo conduttore che ha consentito a Rinaldo De Benedetti di
ricostruire in una prosa limpida ed efficace
non solo l’intensa vita del poeta dal suo arrivo a Roma come giovane,
benestante provinciale di belle speranze al suo triste ritorno nella natia
Verona, malato e disilluso, ma anche l’ambiente di vita di una certa gioventù
romana priva di ideali e di scrupoli.
L’opera fu terminata nel 1935, in piena era fascista; De Benedetti, che non
aveva voluto prendere la tessera del partito e che era di famiglia ebraica, non
provò neppure a pubblicarla costretto com’era a scrivere di scienza e tecnica in
clandestinità e sotto pseudonimo.
E’ rimasta in un cassetto fino allo scorso anno quando la figlia Anna, con
l’incoraggiamento del professor Luca Serianni docente di linguistica
all’Università La Sapienza e autore della bella presentazione, ha
riportato alla luce questa piccola gemma e l’ha fatta avere all’Edizioni
LED che, da parte loro, ne hanno ricavato un raffinato libretto che sicuramente
sarebbe molto piaciuto al suo autore.
Alberto Diaspro: “Quello che gli occhi non vedono”,
Ed. HOEPLI
Recensione di Valeria Fieramonte
Una nonna bellissima e un bambino curioso sono la premessa di un racconto
difficile e avvincente circa le
nuove
possibilità di vedere il molto piccole offerte dalla sempre più evoluta
microscopia ottica.
La travolgente bellezza dell’universo visibile ci è stata rivelata più che da
esseri umani da un telescopio: il telescopio Hubble, ora aggiornata dal James
Webb, che stazionava a 547 km da terra. Ha aperto una svolta indimenticabile ed
epocale, rendendo possibile a chiunque di farsi un’idea di quanto sia
meraviglioso lo spazio infinito. È quasi ormai come un vecchio nonno, cui molti
si sono per gratitudine persino affezionati. Sarà sostituito da un telescopio
cento volte più potente, lanciato lontanissimo, a un milione e mezzo di km da
terra, che tuttavia ormai, arrivando secondo, sarà difficile riesca a suscitare
lo stesso attonito stupore del primo.
Ormai abbiamo capito, anche solo guardando con gli occhi, senza alcun genere di
conoscenza scientifica, molto di più circa l’universo di tutte le generazioni
che ci hanno preceduto.
Molti meno sanno che la stessa capacità di guardare, questa volta non il
lontanissimo e molto grande, donataci dai telescopi, ma invece il più vicino e
tanto piccolo da essere quasi incredibile, ci viene ora data non dai telescopi
ma da microscopi sempre più perfezionati.
Perché sì, la cosa straordinaria è che ormai si possono vedere anche le
molecole, e neppure ferme, ma mentre stanno svolgendo i loro compiti! E si può
accorciare e allungare a piacere, in laboratorio, la lunghezza d’onda della
luce! Non sembra magia? (Mi perdoni Piero Angela, non vorrei denunce al Cicap).
Le molecole biologiche per di più in genere non assorbono la radiazione
visibile, e per fortuna, altrimenti
i nostri corpi si cuocerebbero come polli allo spiedo.
E allora come hanno fatto a vederle?
Secondo Alberto Diaspro basta un vetro curvo, una lente, associata alla luce
dell’arcobaleno.
Le nanotecnologie sono nate così, verso la fine degli anni 50, quando siamo
diventati capaci di osservare il molto piccolo e, per accedere ai segreti del
vivente, era necessario migliorare sempre di più il funzionamento dei
microscopi. Una cosa che è riuscita verso la metà degli anni ‘80: quando è
diventato possibile osservare il DNA e la sua catena di molecole praticamente in
diretta ( il DNA se fosse srotolato misurerebbe quasi due metri, ma in realtà è
stipato in pochi milionesimi di metro.)
Anche uno spazio incredibilmente piccolo può contenere enormi quantità di
informazione, come a suo tempo rilevò Richard Feynman: basta sapere, ma
soprattutto, avere il potere di guardare!
Vedere le cose, invece che limitarsi a fare supposizioni, rende senza dubbio
molto più facile capirle.
In fondo ricorda il Sidereus Nuncius: osservare, interpretare, comunicare.
E così è stato, al punto che, sostiene Diaspro, si può persino prevedere se una
cellula si ammalerà, e se, nel caso, si potrà guarire. Si può vedere in diretta
che succede quando avviene una mutazione cellulare? E dove abita o risiede
l’RNA, ovvero il DNA messaggero? Qual è la sua vera struttura, come vengono
sintetizzate le proteine?
Eh, ne abbiamo fatta di strada da quando il Galilei ( sempre lui) presentò ai
potenti il suo ‘occhialino per vedere le cose minime’!
Tutti sanno del telescopio: invece all’occhialino è stato riservato un destino
minore. Anche se qualcuno è riuscito ad immaginarsi, per es, in veste di
spermatozoo, o di cellula del sangue, la cosa non risulta così romantica e
avventurosa come infilarsi in un buco nero….
Conquistare qualche possibilità in più di sconfiggere, per esempio, qualche
malattia, non ha lo stesso fascino di tentare di conquistare Marte o la luna, ma
in ogni caso ormai siamo dotati anche di una supervista per il minuscolissimo.
Il miglioramento delle tecnologie ottiche è proceduto per gradi, da premio Nobel
in premio Nobel, si potrebbe dire, e questo ci ha resi in grado di individuare
un singolo paramecio nella goccia d’acqua di uno stagno, risalendo indietro nel
tempo a milioni di anni prima di noi.
Come è noto la materia è fatta di atomi ed è visibile attraverso la luce
trasportata dalle onde elettromagnetiche. Naturalmente, siccome a vedere siamo
noi, ci si riferisca all’intervallo coperto dalla luce nella porzione visibile
dello spettro. (POTREMMO VEDERE ANCHE ALTRE PORZIONI DI SPETTRO DANDO FALSI
COLORI…MA QUELLE DEL NOSTRO VSIBILE NON PERTURBANO IL VIVENTE)
E naturalmente occorrono numerose condizioni, tra cui che la materia sia
trasparente ai raggi della luce e non sia troppo densa, e poi calcoli matematici
abbastanza difficili sulla velocità della radiazione nel mezzo (o i diversi
mezzi esaminati), e sui vari indici
di rifrazione, che sono diversi secondo i materiali presi in esame.
L’acqua, per esempio, ha un indice di rifrazione pari a 1,33, mentre l’aria in
condizioni normali si può approssimare a uno.
L’acqua è il maggior costituente della cellula biologica e con opportuni calcoli
l’uso di una lente migliora di circa 500 volte la capacità del nostro occhio di
distinguere i dettagli, e questo già permette di osservare la cellula nei suoi
componenti interni!
Come fare a capire quanto sta diventando grande un ammasso tumorale e a vedere
di quante cellule è fatto e come comunicano tra di loro? Le cellule non stanno
ferme, fanno un incessante lavoro di scambio di informazioni anche tramite
elementi chimici.
Insomma, la faccenda sembrerebbe complicatissima e quasi impossibile, ma a
quanto pare bastano un po' di calcoli matematici per estrarre le informazioni
nascoste nella confusione degli elementi dentro lo spazio tridimensionale, uno
spazio che essendo di pochi nanometri neppure si riesce a vedere con occhi
normali.
I microscopisti che lavorano in collaborazione degli ospedali, per esempio, sono
interessati a vedere (capire) come si muovono le proteine e come si organizzano
i gruppi di molecole nello spazio e nel tempo. Come comunicano tra di loro i
neuroni, come si propaga nel tempo l’informazione, quanto impiega una proteina a
attraversare una cellula, o l’RNA a portare i comandi per far fare nuove
proteine ai ribosomi che ne sono la culla. Oppure con che efficienza un farmaco,
contrassegnato da una bandierina fluorescente, riesce a raggiungere cellule
malate. Quello che rende, appunto, molto potente questo metodo è il fatto di
poter osservare fenomeni che avvengono su scala molecolare, semplicemente
utilizzando un comune microscopio da laboratorio.
A Genova, all’Istituto italiano di tecnologia, sono riusciti a realizzare il
primo microscopio italiano a risoluzione ottica illimitata. Era il 2009 e a
credere nel progetto fu Roberto Cingolani, forse anche grazie al fatto che suo
padre, Aldo, è stato uno dei pionieri delle ‘interazioni non lineari a più
fotoni’, o, più semplicemente di un altro importante miglioramento dei
microscopi ottici.
Anche questa è una storia lunga e interessante, confinata però per la
complessità della materia e delle formule a ambienti molto specialistici. C’è di
mezzo persino una donna, Maria Goeppert – Mayer, cui è stata dedicata
addirittura una unità di misura, detta GM, che serve a calcolare la propensione
che hanno le molecole a lasciarsi eccitare da due fotoni, colore per colore.
Con l’avvento della super-risoluzione ormai si può dire che abbiamo dei super
occhi che ci permettono di osservare persino i pori nucleari che sono le porte
di entrata e di uscita per varie molecole tra il nucleo della cellula e la
cellula nel suo insieme. Queste porte, i pori nucleari, si possono osservare a
uno a uno, assieme al traffico che vi passa attraverso e le proteine di cui sono
fatti. E si possono contare a una a una le molecole coinvolte nella vita della
cellula biologica.
Questo probabilmente farà si che la doppia elica del DNA non avrà un giorno più
segreti. Sarà centrale per questo lo studio della cromatina, che è la
macromolecola biologica più importante nei processi che regolano
l’organizzazione del DNA.
Il libro è corredato di una serie di foto a colori e in bianco e nero che
sembrano opere d’arte e invece sono, in genere, molto più prosaici tessuti umani
e animali visti tramite i super occhi dei microscopisti.